Un’anziana vedova senza più rapporti con la figlia e al lavoro, una pre-adolescente a disagio con i coetanei, una mamma trentenne incapace di confrontarsi con un piccolo figlio iperattivo: tre donne ceche di tre diverse generazioni, tutte e tre a proprio modo marginali, si incrociano nella modalità dell’”effetto domino” in un centro commerciale, proprio nel giorno di un misterioso black-out con conseguenze apocalittiche…

Le figure femminili tratteggiate in questo secondo e interessante lungometraggio della regista e performer romeno-ungherese Cristina Groșan (classe 1987), già attenta alla tematica dell’incomunicabilità (in primis tra familiari) sia nei suoi corti che nel lavoro d’esordio Things Worth Weeping For (2021), possono ricordare gli stralunati outsider di alcuni recenti film in lingua ceca presentati negli ultimi anni al Festival di Karlovy Vary. Vengono in mente, ad esempio, il Bird atlas (2021) di Olmo Omerzu e And then there was love (2022) di Šimon Holý, dove saltavano all’occhio personaggi di donne sole (nel ruolo tanto di madri quanto di figlie) alla disperata e talvolta tragicomica ricerca di un minimo di calore umano, apparentemente incompatibile con la freddezza asettica del mondo esterno, ben riflessa in ambienti immancabilmente connotati da forme squadrate, colori algidi, arredamenti minimal e rumori di fondo ridotti all’osso.

Come vediamo anche qui, la cieca ricerca degli affetti risulta spesso e volentieri castrata proprio dai blocchi psicologici di chi, paradossalmente, spesso la persegue chiudendosi al mondo per  timore di non essere compreso a meno di non tradire se stesso, con periodici risvolti grotteschi e spiazzanti: difficile non cogliere, in Ordinary failures un caustico umorismo nero davanti al cane robot con cui si diletta l’anziana vedova, ai vestiti da bambola che i genitori fanno indossare alla figlia tredicenne chiaramente gender fluid (la cui compagna di giochi prediletta è una gatta incinta – ma perlomeno viva differentemente dal cucciolo meccanico senza muso di cui sopra), o alle ipocrite ricche mamme dei compagni di scuola del bambino della trentenne Silva.

I “guasti ordinari” che inceppano i complessi meccanismi attraverso cui quell’animale sociale chiamato uomo (non) interagisce con i propri simili, però, qui finiscono per essere fagocitati da un’avaria di ben altra portata. L’imminente e inspiegabile catastrofe finale, che costituisce in realtà uno sfondo angosciante sin dall’inizio del film, appare più antropica che naturale, con la serie di blackout e poi di esplosioni probabilmente connessi con il malfunzionamento di un gasdotto, giusto per restare al passo con gli angosciosi tempi che stiamo vivendo ora. La disarmonia interiore ed esteriore della nostra nevrotica e tossica quotidianità, insomma, porta in ultima analisi a un cortocircuito, a un punto di non ritorno.

Il profondo disagio individuale delle tre protagoniste si inscrive dunque in un soggetto dalle tinte distopiche e dalle vaghe suggestioni fantascientifiche, visto che l’ambientazione, per alcuni suoi dettagli, fa pensare a un non meglio identificato futuro (seppur a breve termine). Nondimeno, l’apocalissi finale va a costituire lo stimolo per far scaturire nuovamente una vicinanza prima inconsciamente respinta, in un processo che negli ultimi minuti sembra richiamare la “social catena” di leopardiana memoria. Di fronte a un mondo che cade a pezzi i tre personaggi, dopo essersi incontrati proprio a ridosso del collasso finale con una dinamica di incroci fortuiti nello stesso mall che a suo modo riecheggia gli 11 minuti di Jerzy Skolimowski, prendono finalmente coscienza di ciò che sono e ritrovano una vicinanza e un’intimità che avevano perso, perlomeno con i propri cari.

“Nel mezzo di un mondo che si sta sgretolando, [le tre protagoniste] hanno bisogno di ritrovarsi, di rallentare e di ascoltare. La loro lotta ha un motivo. È il desiderio di un nuovo mondo”, scrive la regista nella presentazione del film predisposta per le Giornate degli Autori. A giudicare dalle scene conclusive, è ben difficile credere nella costruzione di un nuovo mondo, nonostante lo slancio proattivo dimostrato da Hana, Silva e Tereza negli ultimi minuti. Se mai, a rimbalzare dallo schermo prima dei titoli di coda è un avvertimento: se non ci si ritrova, non si rallenta e non si ascolta in tempo, a livello sia microscopico che macroscopico, il big bang che metterà fine al nostro pianeta arriverà in tempi brevi, e a quel punto sarà già troppo tardi.