Uno dei protagonisti indiscussi di questo 71° Locarno Festival è sicuramente l’attore e regista Ethan Hawke, da ieri impegnato a presentare la bellezza di tre film in due sezioni diverse della kermesse. Dopo le proiezioni nella giornata di ieri del suo documentario del 2014 Seymour: An Introduction e del film drammatico di Paul Schroder dell’anno scorso First Reformed (il primo nella Piazza Grande, il secondo nella cornice più “intima” ma ugualmente gremita del multisala Palacinema) oggi è il turno del suo Blaze, biopic sul leggendario cantautore country Blaze Foley presentato sempre nella sezione Piazza Grande. Scritto assieme alla vedova del musicista, Sybil Rosen, Blaze è il terzo film di fiction da regista per l’attore americano, che decide di dedicare la sua ultima fatica a un artista considerato come una semi-divinità tra gli addetti ai lavori ma non abbastanza conosciuto al grande pubblico.
Hawke immagina il racconto della vita del cantautore vagabondo (interpretato da un altrettanto misconosciuto musicista alla sua prima esperienza sul grande schermo, il mastodontico e barbuto Ben Dickey che regala un’interpretazione che farebbe invidia ad attori con 30 anni di esperienza) come una lunga intervista radiofonica in cui un altro mostro sacro del country, l’amico di Foley Townes Van Zandt (qui interpretato dal chitarrista di Bob Dylan Charlie Sexton, che con Hawke aveva già lavorato in Boyhood) espone la complicata vita e carriera di Blaze tra la difficile storia d’amore con la moglie Sybil, gli innumerevoli concerti davanti a quattro persone negli ultimi bar del paese e le altrettanto innumerevoli risse alcoliche, fino al successo negli ultimi mesi di vita prima della tragica scomparsa.
Grazie alla scelta di raccontare la storia di Blaze (al secolo Mike Fuller) da prima ancora di diventare musicista fino alla morte, Hawke mette assieme un film che ha come primo obiettivo quello di far scoprire la figura del leggendario cantautore a chi mai ne aveva sentito parlare. In questo senso va anche la scelta di dare uno spazio enrome alla musica, che occupa uno screen time pari se non superiore ai dialoghi grazie alle interpretazioni cariche di passione di Ben Dickey e Charlie Sexton, mai inserite a caso ma sempre incastonate in momenti del film che vanno in piena sintonia con il tono del brano scelto, a commento della storia stessa, con momenti al limite del commovente (una su tutti la scena in cui Blaze suona per il padre malato, interpretato tanto per gradire da un altro mostro sacro del genere come Kris Kristofferson).
Un aspetto della vita del cantautore su cui Hawke si concentra particolarmente è il difficile rapporto con la disciplina e con qualsiasi regola che arrivi dall’alto, come esplicitato nell’ultima parte del film, in cui l’incapacità di Foley di “funzionare” come musicista a pieno regime gli fa perdere la chance di lavorare per tre ricchi petrolieri e produttori discografici (a cui Hawke assegna i volti di tre amici, ovvero il regista Richard Linklater, l’attore premio Oscar Sam Rockwell e il caratterista Steve Zahn). Questo gigante irrequieto si muove su sfondi diversi che in quanto a suggestività sono ai livelli delle musiche utilizzate, dai bar a tratti bui e a tratti fosforescenti ai boschi dall’aurea giallina in cui Foley si perde con l’amata Sybil. Queste ambientazioni vengono immortalate da Hawke con sapienza e mestiere, con una regia e un montaggio che non fanno mancare piccoli colpi di genio, come le sequenze in cui il protagonista si immagina da solo su un immenso palco vuoto dalla luce spettrale.
“Blaze” di Ethan Hawke
IF I could only fly