“Burning Cane” di Philip Youmans

La scena iniziale di Burning Cane è esemplificativa della mentalità che pervade i protagonisti del film, della loro distanza da tutto ciò che e “ufficiale” preferendo invece metodi casalinghi: in voce fuori campo Helen (Karen Kaia Livers) parla del suo cane, Jojo, malato di tigna che si gratta disperatamente tutto il giorno. Per curarlo ha provato di tutto, dall’aceto di mele al perossido di idrogeno al miele, suo figlio le suggerisce perfino il carburante che pare guarisca da ogni male; ha provato di tutto tranne portare Jojo dal veterinario perché sa già quale sarebbe la risposta: andare in mezzo ai campi di canna da zucchero e sparargli per porre fine alle sue sofferenze, e che lei sia dannata se mai accetterà una cosa del genere. Solo Dio ha il potere di decidere quando e come Jojo dovrà morire. Il che è certamente qualcosa che va tenuto a mente alla luce del drammatico finale.
Helen vive nel sud degli Stati Uniti, in Louisiana, in una comunità profondamente legata alla sua chiesa, e al pastore Tillman (splendidamente interpretato da Wendell Pierce, indimenticato Bunk di The Wire e che qui compare anche in veste di di produttore) che dal suo pulpito predica amore e amicizia, e mette in guardia dalle tentazioni del demonio, forse quelle stesse tentazioni a cui lui non sa resistere, racchiuse nella sua fiaschetta da tasca da cui non si stacca nemmeno quando è al volante. Il figlio di Helen, Daniel, è un alcolizzato che ha perso il lavoro e per questo beve, anche se al contempo ha perso il suo lavoro proprio a causa dell’alcol, in un circolo vizioso che da sempre è senza fine, come sembra farci capire il fatto che Daniel dia da bere del whisky al figlio Jeremiah, per farlo star buono.
Helen si carica sulle spalle l’ingrato compito di provare a salvare entrambi questi uomini che così disperatamente cercano invece di annegare nell’alcol i propri demoni.
Phillip Youmans, autore dell’opera, ha vinto il Founders Prize al Tribeca Film Festival, divenendo non solo il primo afroamericano a ottenere questo premio, ma anche il più giovane: ha appena compiuto 19 anni. I temi che tratta sono tali che registi con ben più esperienza avrebbero tema di affrontare, e che lui invece maneggia con estrema destrezza, considerata la sua giovane età. Età che però risulta anche essere un limite nel narrare storie così complesse con tratti così essenziali. Anzi, forse narrazione non è nemmeno parola giusta, non ci si trova di fronte a un film compiuto e strutturato ma piuttosto a scene di vita separate, spesso sovrapposte in voice over da altri racconti, mai davvero finite e sempre in sospeso, che si perdono come il fumo della canna da zucchero che brucia.
Gli unici momenti in cui la struttura è lucida e conclusa sono i sermoni del pastore, vedovo addolorato che pare, Helen ci informa sempre in voice over, non lesinasse le botte alla defunta moglie. Anche Daniel, nella sua fragile mascolinità, riversa tutta la sua frustrazione e insoddisfazione picchiando la moglie, rivelando a sua volta il lato oscuro della mascolinità tossica così tipica e così spesso occultata nelle piccole comunità.
Ma questi sono tutti spezzoni che non formano un unico coeso, lunghi silenzi e riprese in stanze buie dove a malapena si intravedono i volti dei personaggi, con dialoghi ridotti al minimo che rendono il senso di isolamento costante e ineluttabile fino a giungere a un tragico e imprevedibile finale che avrebbe invece meritato più solidità alle spalle, e una maggiore delineazione dei personaggi, per risultare davvero d’impatto.