Enea e Valentino sono due ragazzi figli di famiglie della Roma salottiera e borghese. I due diventano spacciatori di cocaina quasi per gioco, senza rendersi conto né interessarsi troppo delle implicazioni e delle conseguenze di ciò che fanno.
Dopo il buon esordio di Predatori, Pietro Castellitto torna dietro la macchina da presa con una storia dalla tematica simile – il disagio generazionale di una specifica classe sociale – ma dalle ambizioni più elevate, sia a livello narrativo che a livello visivo.
Enea racconta i figli della Roma bene della sua età, dipinti come una generazione vuota, anzi, svuotata. L’unico valore che sia stato loro impartito è quello del denaro, della chiacchiera fine a se stessa, che non ha davvero nulla da dire (emblematica, in tal senso, la madre di Valentino). Le loro sono famiglie che pensano solo a perpetrare se stesse come collettivo, soffocando ogni individualità, ogni aspirazione. Titillano i figli con la prospettiva di mille opportunità che non si concretizzeranno mai e, anzi, spesso contribuiscono attivamente a non far concretizzare.
Castellitto guarda a un mondo che è innegabilmente il suo, ma non lo fa con simpatia o quantomeno empatia come viene sempre fatto in Italia dai cosiddetti “drammi borghesi”, ma con cattiveria, quasi con odio. Lo sguardo registico non ha alcuna pietà dei suoi personaggi, a partire dai due protagonisti, di cui mette pienamente a nudo l’insopportabile arroganza, lo scarso senso della realtà (“tu sei nato ricco”, dice a un certo punto il padre di Enea, riassumendo alla perfezione il problema), la totale mancanza di senso di responsabilità.
Quando qualcosa cambia, è troppo tardi, e resta solo da scegliere se trovare una via di fuga onorevole (o presunta tale, ma mi fermo qui per evitare spoiler) o semplicemente ignorare ciò che si è fatto, sperando che si risolva da solo perché è quello che la mia condizione sociale mi ha abituato a fare. Il finale è la sublimazione di questo atteggiamento, un finale potente in cui sullo sfondo c’è la morte e in primo piano la vita che continua e che addirittura vola verso l’alto, i protagonisti prigionieri (in)consapevoli di una favola che continuano a raccontare a se stessi. Ciò che sembra poetico è, infatti, l’ultima stoccata di Castellitto, la critica di un’illusione, di un’autonarrazione destinata a infrangersi di fronte alla cruda realtà.
Castellitto e Giorgio Quarzo Guarascio (il rapper Tutti Fenomeni) rendono alla perfezione il vuoto interiore di Enea e la strisciante depressione di Valentino. Enea è un guscio, incapace di capire le emozioni delle persone intorno a lui, e persino i suoi tentativi di redenzione, come aiutare il fratello adolescente o trovare l’amore, sono goffi, innaturali, e posticci, e destinati al fallimento. Castellitto lo interpreta di conseguenza, con un’espressione vacua sul volto, una maschera incapace di emozioni. Il suo fallimento è sublimato in una splendida scena muta con Valentino, in cui il rapporto tra i due viene squadernato con dolente dolcezza.
A livello visivo Castellitto esce dagli ambienti chiusi di Predatori e si tuffa in una Roma a volte lirica, a volte squallida, a volte solare, a volte crepuscolare, dove alla bellezza esteriore corrisponde una bruttezza interiore, e viceversa. Le scene più ricche di dignità si svolgono in case di riposo o vecchie automobili, illuminate in luce naturale, senza fronzoli; quelle più marce si svolgono in discoteche monumentali dalle luci sulfuree, che sembrano uscite da Apocalypse Now, e in splendidi circoli privati inondati di sole.
Castellitto, dunque, alza il tiro, realizzando un film complesso, sfaccettato, con tanti livelli di lettura e continui cambi di direzione. Spesso il film gli scappa di mano, alcuni dialoghi sono un po’ troppo retorici, e in generale non tutti i momenti sono riusciti. Resta, tuttavia, una visione originale, unica, che fa sì che il film nel complesso funzioni, e che alcuni dialoghi e immagini rimangano impressi nella memoria. In un cinema che ha fatto del compitino uno stile di vita, è bello vedere qualcuno che punta in alto, anche a costo di inciampare e fallire, nel tentativo di dire qualcosa di nuovo, o quantomeno di dirlo in modo diverso.