A chiudere la rassegna Piazza Grande del 71° Locarno Festival (ironia della sorte non dalla Piazza Grande ma dal multisala PalaCinema) è la commedia francese I Feel Good, firmata dalla coppia di registi Benoît Delépine e Gustave Kervern, che con le loro commedie grottesche e al limite del punk vantano il primato di aver riportato Gérard Depardieu dopo tanti anni agli onori della cronaca per una performance cinematografica e non più per il solito scandalo (con Mammuth prima e con l’agrodolce Saint Amour poi).
Per I Feel Good i due autori hanno invece optato per un protagonista ben meno impegnativo da gestire, il premiatissimo Jean Dujardin, qui nei panni del quarantenne fallito Jacques, che decide di voler diventare miliardario a tutti i costi aprendo un’agenzia che si occupa di chirurgia estetica low cost, i quali clienti sono selezionati tra gli ospiti border-line della comunità di recupero in cui lavora la sorella Monique (una bravissima Yolande Moreau). Come è prevedibile, l’impresa di Jacques finirà nel peggiore dei modi, in un surreale crescendo di follia che in alcuni momenti rasenta il nonsense. E nonostante non sia la prima volta che una commedia della coppia Delépine-Kervern (o in generale una commedia francesce o francofona, specie negli ultimi anni) rasenti la follia più pura, questa volta ai due registi potrebbe essere sfuggita la mano.
E non perché I Feel Good sia uno dei film più assurdi mai proiettati, ci mancherebbe, ma piuttosto perché i due autori sembrano aver preferito perdersi tra dialoghi ridicoli, gag grottesche e personaggi al limite della malattia mentale degni del compianto Jimmy il Fenomeno piuttosto che dedicarsi non dico alla trama (ce ne sono di ben più scarne in film ben più apprezzabili) ma alla godibilità del film, come se la sceneggiatura fosse stata scritta incollando una serie di sketch non sempre felici a una storia che poteva essere sviluppata meglio. Un lato positivo del film è sicuramente il personaggio di Jacques, in bilico tra la stupidità e la pazzia, ossessionato da tutto ciò che è superficiale e dal successo nella sua accezione più vuota e più pop, tra libri di Bill Gates riletti cento volte e settimane passate nel garage a cercare di farsi venire un’idea geniale come Steve Jobs.
Un altro aspetto positivo sono alcune piccole trovate a livello visivo e scenografico, come l’immaginifica e coloratissima comunità di recupero (che sembra un campo nomadi disegnato da Ettore Sottsass) o le transizioni tra una scena e l’altra realizzate inquadrando cataste di oggetti di ogni tipo, da tazze rotte a orologi, a richiamare il patologico consumismo del protagonista. Certamente i due cineasti non avranno firmato il loro lavoro migliore e forse potevano sfruttare meglio un’idea che aveva del potenziale, anche se le occasioni per farsi scappare un sorriso o una risata ci sono tutte e i film veramente brutti sono ben altri.
“I Feel Good” di Benoît Delépine e Gustave Kervern
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