Nel penultimo giorno di proiezioni alcuni nodi devono per forza di cose venire anzi tempo al pettine, e la sezione dei cineasti del presente deve essere sacrificata sull’altare della necessità. L’undici agosto sarà il giorno della conferenze stampa e della premiazioni, con focus ovviamente sul concorso internazionale e sul Prix du Public affidato al gusto degli spettatori della Piazza Grande, mentre il dieci, oggi, si chiude la categoria delle giovani promesse, proprio con Siyabonga, battesimo del fuoco del giovanissimo Joshua Magor.
Direttamente dal Sudafrica, paese che non si vedeva rappresentato qui a Locarno da più di qualche anno, Siyabonga arriva sugli schermi della 71esima edizione così, con calma e eppure responsabilità, mentre questa è lieta di poter contare su quest’opera per fornire una chiusa efficace a una categoria che, francamente, quest’anno non ha certo brillato. Siyabonga è il nome di un giovane ragazzo che vive a Mphopomeni, villaggio situato in una delle regioni più povere del Sudafrica, appassionato di recitazione e sport, campa come attore teatrale con una compagnia imbastita assieme a tre amici. Una delle sue più grandi aspirazioni è sempre stata quella di recitare in un film, e quando si presenta l’occasione, non ha certo intenzione di farsela sfuggire. Joshua Magor è il regista di quel film, ancora in fasce, che si sarebbe dovuto girare in quella zona, a mezz’ora di taxi dalla casa di Siyabonga. Quest’ultimo farà di tutto per mettersi in contatto con chi di dovere, infilandosi nel “contrabbando di wi-fi” (privilegio degli umlungus) fino a valutare anche il voodoo, o similia. Lo stesso Magor, impressionato dalla sua dedizione, ha deciso di trasformare questa curiosa circostanza avvenuta per caso nel film che avrebbe realmente girato in loco, ricostruendo le dinamiche precedenti e anche immediatamente successive al meeting, come piace tra le altre cose definirlo al protagonista perché “l’inglese è più professionale”.
Camera fissa, montaggio lineare, luce naturale. Magor ha le idee chiare, confeziona con una tecnica tanto spartana quanto impeccabile una storia sulla routine di Siyabonga e sul suo sogno, che si avvera proprio con questo film in cui egli impersona se stesso – interpretazione complessa, specie per essere un esordio, ma affrontata con estrema naturalezza – a metà fra finzione e documentario. La ripetizione di Siyabonga di fatto, soprattutto nella prima parte, racconta la sua realtà, basilarmente. Una realtà fatta di economia di sussistenza e vita giorno per giorno in una comunità dove praticamente non circola denaro e tutti si conoscono e s’aiutano, almeno in questo frangente storico. Cinque o dieci anni fa o giù di lì non doveva essere così semplice, per i soliti motivi legati alle conseguenze dell’apartheid. Il sogno di Siyabonga è la sua personalissima declinazione di quella speranza flebile che tutte le persone inquadrate possiedono: dopo una vita di sofferenza, adesso i bambini possono andare a scuola e non si corre certo il rischio di morire di fame o bastonate, ma la volontà di riscatto è ancora presente nei cuori di tutti gli abitanti, specie in quei ragazzi che sognano il calcio europeo e fantasticano dinanzi a potenziali scout (che poi magari sono solo persone che si riposano un attimo all’ombra), mentre Siyabonga sogna(va) il cinema, e ora ci è arrivato. Emblematica è quella scena in cui lo stesso protagonista si cimenta nell’insegnamento dei rigori a ragazzini, coronando per un secondo quelle aspirazioni che difficilmente vedranno mai luce, come a compensare – è palese l’improvvisazione in quel momento – il fatto che lui sia arrivato fino in fondo mentre gli ingenui ragazzini prima o poi dovranno abbandonare le speranze.
Un film semplice, come già detto, ma sincero nella sua messa in scena quanto dotato di una certa complessità teorica: la ripetizione del reale sotto forma di finzione nel circolo in cui si rincorrono film in sé e film ipotetico non è cosa da poco, nonostante un minimo di dispersione e una quadratura formale e di pensiero estremamente grezza. Siyabonga è tutto fuorché un capolavoro, come del resto le pellicole che l’hanno preceduto, ma sprizza passione per il cinema da tutti i pori, e quella è impossibile da non apprezzare.