Siamo nella Polonia “comunista” di Jaruzelski, verso la fine della legge marziale, ma in una Varsavia dove la libertà continua comunque ad essere molto limitata. Due giovani amici, Grzesiek e Jurek, festeggiano in modo un po’ disordinato la maturità nel centro della capitale. Purtroppo due solerti e mal addestrati giovani membri della milizia li trattengono e li portano al commissariato. Lì l’eccesso di zelo poliziesco diventa violenza pura e il povero Grzesiek verrà malmenato a morte.

I casi di maltrattamento di giovani e meno giovani cittadini da parte della polizia non sono certo una novità o una cosa rara, e anche il caso di George Floyd, tra gli altri, ha giustamente scosso l’opinione pubblica mondiale e riportato alla ribalta simili scandali. Anche in Italia, giusto per nominare solo il più noto episodio recente, la triste vicenda di Stefano Cucchi ha sollevato indignazione e reazioni importanti, fino ad arrivare al bel film Sulla mia pelle che ne ha ben descritto i drammatici risvolti. Che però tali maltrattamenti si verifichino in paesi che si dichiarano “socialisti” o “comunisti” ha sempre un retrogusto particolarmente amaro, se proprio quei regimi si autopropongono, almeno sulla carta, come la migliore realizzazione della giustizia sociale e del rispetto dei propri cittadini. La Polonia della “repubblica popolare”, in particolare, ha conosciuto diversi famosi eventi di arbitrio violento da parte delle forze dell’ordine o addirittura dei servizi segreti, come per esempio il ben noto omicidio del sacerdote Jerzy Popieluszko, o la morte enigmatica nel centro di Cracovia dello studente d’opposizione Stanislaw Pyjas. Meno noto, almeno per noi in Italia, è un altro caso di uccisione, conseguenza di un feroce pestaggio inferto da un gruppo di poliziotti allo studente Grzegorz Przemyk nel 1983. Il caso suscitò vibranti proteste nella società dell’epoca, con conseguenti manifestazioni di massa che misero in imbarazzo il regime, e ancora oggi viene commemorato dall’odierno governo polacco, anche perché la sua famiglia era piuttosto in vista: la madre infatti era Barbara Sadowska, nota poetessa e attivista anticomunista, spesso vittima a sua volta di atti persecuzione da parte del regime di polizia polacco.

Jan Matuszynski con il suo secondo lungometraggio di finzione decide di illustrare per filo e per segno gli eventi collegati a questo tragico caso, così come essi possono essere ricostruiti sulla base di testimonianze e faldoni giudiziari dell’epoca. Il regista polacco aveva fatto parlare di sé con un documentario del 2013 girato per la HBO, Deep Love, e poi aveva dedicato il suo esordio di finzione ad un poliedrico artista del suo paese, Zdzislaw Beksinski. Qui egli decide di infilare in profondità il coltello nella piaga della PRL, ossia del periodo in cui la Polonia era soggetta alla burocrazia poliziesca dettata dall’Unione Sovietica: siamo nel 1983, Solidarnosc è già una realtà nota in tutto il mondo, la BBC e Radio Free Europe, fra gli altri, tengono informato il “Blocco occidentale” su ogni singolo caso di abuso sui cittadini che trapeli dalle maglie della censura, per cui l’“incidente” occorso al giovane studente Przemyk rappresentò all’epoca una bruttissima gatta da pelare, soprattutto per il Ministero degli Interni, in un complesso equilibrio/scontro fra i vari organi amministrativi pronti a scaricare la figuraccia l’uno sull’altro, per non pagarne le conseguenze politiche. 

Matuszynski aggredisce la sua materia con il piglio di un procedural drama all’americana, in cui però il crimine viene mostrato in diretta all’inizio, e i perpetratori sono ben noti, ma rimarranno comunque senza castigo. Il primo termine di paragone del cinema di casa che ci viene in mente è il Walesa di Wajda, ma fa anche capolino certa precisione un po’ pedante di alcuni lavori di Agnieszka Holland per la HBO (Burning Bush su Jan Palach, tanto per restare in tema di regimi comunisti). “Precisione pedante”, o forse anche un po’ pesante, in quanto, come nei film summenzionati, la vicenda concreta, con i suoi mille rivoli e risvolti, sembra prendere la mano dell’autore, che ha difficoltà ad incanalare con maggiore asciuttezza l’enorme massa di dati e dettagli a sua disposizione. È vero: soprattutto nella prima parte siamo trasportati con energia notevole e adeguata ricostruzione filologica nel mezzo del vortice di ingiustizie che sconvolse un gruppo di cittadini polacchi capitati sotto le tenaglie auto-protettive degli ingranaggi del regime. Falsità spudorate, manipolazioni, insabbiamenti, violenze fisiche e psicologiche sono pane quotidiano per i regimi antidemocratici come quello polacco dell’epoca, ma Matuszynski lavora per accumulo e per (forse eccessivo) ammasso di dettagli, perdendo qua e là la possibilità di una scorciatoia narrativa o di una funzionale ellissi che avrebbe reso meno imponente e più digeribile un lavoro di ben 160 minuti di durata.

La carne a cuocere è dunque molta: la complicata situazione personale di Jurek, amico del defunto e unico testimone del pestaggio, la love story “scandalosa” fra questi e la matura poetessa (madre del suo amico!), che in una Polonia comunque di radicata tradizione cattolica diventa leva di ricatto nelle mani di atei tormentatori, il va e vieni di testimoni (veri e falsi), procuratori (venduti o meno), nemici e familiari (a volte una cosa e l’altra allo stesso tempo) che si affastellano sullo schermo…si perde però così forse la freschezza e l’immediatezza dell’accusa civile e morale ad un sistema oppressivo, e si smarrisce anche la forza d’urto della condanna politica e sociale. Certe semplificazioni rappresentative, poi, non giovano troppo al realismo della figurazione: si vedano alcuni rappresentanti del potere raffigurati con tratti quasi caricaturali, che ovviamente spingono il pubblico a parteggiare in massa contro di loro, ma che sanno a volte di scorciatoia drammaturgica. Interessante è invece la decisione del regista di non abbandonare un certo coté ironico, grazie ad alcune caustiche battute e osservazioni che (con il senno di poi e con il beneficio del distacco temporale) alleggeriscono un po’ la ricostruzione a tinte fosche di una Polonia ben poco accogliente. 

Un film un po’ eccessivo, insomma, che se rende omaggio e giustizia ad una delle tante innocenti vittime del regime, non sceglie certo la via della sottrazione o della metafora, ma lavora sull’abbondanza dei riferimenti concreti, rimanendone infine un po’ soffocato.