Il concorso della mostra veneziana nel 2021 torna a ospitare un film filippino che sfiora le quattro ore ma Lav Diaz, come ha già avuto modo di spiegare alle autorità, è assolutamente innocente e provvisto di alibi. Si tratta solo di un malinteso, perché il responsabile questa volta è l’istrionico Erik Matti, che calca per la prima volta in carriera il red carpet di un evento festivaliero di primo livello grazie al sequel del film che invece l’aveva consacrato al Far East e a Cannes nel 2013: On the job.
Battute scontate a parte, il secondo capitolo non è narrativamente connesso al primo in maniera diretta ma ne mantiene lo spirito, essendo comunque basato su fatti di cronaca più o meno recenti relativi ai legami tra politica e criminalità e riproponendo l’espediente narrativo del sicariato direttamente su permessi-premio dalla prigione opportunamente artati. La corposa novità riguarda appunto l’architettura del film, non più un thriller classico e canonico, ma un fluviale intreccio con ramificazioni infinite, colpi di scena e ribaltamenti di fronte continui e un cast vastissimo. È operazione complessa restituire un sunto fedele di quello che riguarda On the job: the missing 8 perché dentro c’è veramente di tutto. L’imbastitura è corale a dir poco, ma apogeo e perigeo dell’orbita narrativa sono i personaggi di Sisoy Salas e Roman Rubio. Il primo è una sorta di Emilio Fede, giornalista e conduttore radiofonico per hobby e cane da guardia di Pedring Eusebio, corrottissimo sindaco di La Paz, per lavoro. Il secondo è uno di quei killer-pecore che coprono chi può pagare per far scontare la propria condanna ad altri e approfittano della condizione di “insospettabilità” per mettere da parte un gruzzolo eseguendo omicidi politici dietro compenso con la complicità della polizia. La posta in gioco cambia radicalmente per entrambi quando Eusebio fa uccidere Arnel, collega e amico di Sisoy nonché giornalista serio, assieme a tutta la sua famiglia (gli eponimi otto desaparecidos) da un commando di irrintracciabili guidato da Roman, che a sua volta scopre di essersi fatto fregare e di essere stato condannato all’ergastolo per un crimine a lui estraneo; Sisay comincerà a raddrizzare la propria postura dai 90 gradi di partenza e Roman farà di tutto pur di ottenere la libertà, non sopportando l’idea di fare il sicario in semi-libertà per tutta la vita.
Chi legge perdonerà se andiamo lunghi con la parte squisitamente narrativa ma On the job 2 è un mastodontico panettone gastronomico dentro al quale si trova veramente di tutto: corruzione, criminalità, storie di redenzione, conflittualità interne ai gruppi di potere, tradimenti politici, familiari, giornalismo watchdog in un senso e nell’altro, difesa della democrazia dal potere, denuncia sociale, scambi di ruolo, allegorie politico-storiche. Insomma, On the job: the missing 8 è un The departed più confusionario. Ed è anche più confuso, però.
E vale la pena citare il film di Scorsese e non la trilogia originale cinese Infernal affairs (più vicina geograficamente) perché il tono tenuto da Matti è quello dell’emulazione-omaggio. La cifra stilistica di On the job ricalca lo stereotipo dell’America anni ’80; al netto della presenza asfissiante di social network, nuovi mezzi di informazione, denunce tramite dirette streaming, Matti insiste sulla location principale, una redazione classica dall’aria asfittica strapiena di scrivanie, fogli volanti, frenetici viavai di personale e la fantomatica “stanza dei bottoni”, dove in dieci metri quadri si decidono le sorti di migliaia di persone in base a quello che verrà o meno rivelato. Il quinto potere, l’old fashioned potere della stampa. Anche la colonna sonora pop e la centralità dei montaggi musicali la dicono lunga in questo senso, così come le manipolazioni tipicamente invasive in fase di montaggio: split screen a profusione, sovraimpressioni esagerate, momenti da videoclip a se stanti e via dicendo. Matti ricerca una chiave post-moderna citazionistica e affabile gestendo bene i tempi in quasi tutta l’opera: fatto salvo il momento di transizione a cavallo tra primo e secondo terzo del film – lento e contorto – il regista filippino riesce a pesare bene i momenti di costruzione di svolte narrative e le loro esecuzioni, bilanciando la pars construens e quella destruens, in modo da tenere teso il filo del ritmo.
La forza di Matti più che nella regia però è chiaramente nella scrittura: la sovrabbondanza di artificiosità sfacciata e il dinamismo tecnico, per quanto possano saltare all’occhio e agevolare lo spettatore a reggere la laboriosità dell’ordito con momenti da pur puro divertissement o di comicità di alleggerimento, non oscurano mai un intreccio incredibilmente complicato e attorcigliato su se stesso al punto da legare a sé lo spettatore al di là della prolissità della vicenda, arricchita da side stories ed elementi di contorno che riguardano la volontà di fare inchiesta o metafora politica. In ambedue queste categorie ricade, ad esempio, la diatriba tra Pedring Eusebio e il figlio infingardo, ricalata su alcune problematiche di successione verificatesi davvero in seno alla famiglia Marcos.
Tutta questa frastornante moltitudine di fattori non fa altro che arricchire una storia che forse non può essere presa sufficientemente sul serio per essere valutata come una denuncia nemmeno parziale, ma alla quale va riconosciuta la capacità di saper variare trai generi (azione, thriller, noir, dramma, commedia, gangster) e il pregio di amalgamare le varie parti che la compongono: il risultato è che On the job: the missing 8 è un film molto più leggero di quanto non facciano pensare gli indizi, ma questo non toglie nulla a un lavoro che riconferma il valore del nome di Erik Matti nel cinema asiatico. E poi come si fa a non apprezzare un film che rende edotti dell’esistenza di una cover in lingua tagalog di Bella ciao?
O partisan, ako’y akayin,
Bella Ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
Partisano, ang aking buhay,
Ramdam ko’y pumapanaw…