Un “cold case” di venti anni prima diventa per un ispettore di polizia l’occasione di un viaggio nel passato nel tempo e nello spazio, dove rivivono i fantasmi di una comunità chiusa e ostile e i suoi propri fantasmi, quelli di una vita dove “spostarsi di qui o di là alla fine è lo stesso”. Il senso del passato, del ricordo, dell’astrazione, come di un incubo costante, è enfatizzato dal bianco e nero di tutto il film.
Travis (Simon Baker, perfetto nella parte) è un poliziotto duro e di poche parole, una specie di Callaghan: dietro i suoi occhiali si rivela un uomo pieno di contraddizioni (faceva parte dell’antidroga ma non può fare a meno della sua eroina quotidiana, eppure in auto ascolta non musica bensì solo prediche di qualche un pastore cristiano), è scrupoloso, paziente e di cuore. È catapultato a Coober Pedy, una cittadina nel cuore dell’Outback australiano meridionale, la “capitale mondiale dell’opale”, un territorio inquietante, un vero clima da limbo, con i suoi infiniti buchi, gallerie e miniere, con tanto caldo che le persone vivono nelle caverne sotto terra e anche l’albergo “Limbo Motel” dove soggiorna il poliziotto è scavato nella roccia.
“Io non parlo con i poliziotti e tanto meno se sono bianchi”, gli risponde Charlie, un aborigeno della famiglia di Charlotte, la ragazzina che vent’anni prima era scomparsa ma nessuno aveva fino ad allora condotto indagini accurate. “Perché era una nera e se i sospettati sono dei bianchi, le indagini si fermano”.
Travis si scontra con la continua discriminazione cui sono ancora sottoposti gli indigeni, con loro condizione sociale, con il loro mondo precario, sempre alla ricerca di qualche opale da vendere e con un modo di vivere diverso ma che è comunque sbagliato criticare (“noi raffiguriamo le famiglie con la mamma e i figli. I padri restano fuori del quadro”).
La difficile indagine dunque diventa occasione per conoscerli, per pranzare con loro, per capire il loro punto di vista e che il loro dolore non è poi diverso da quello di Travis, che anche lui da anni, dopo il divorzio dalla moglie, non vede suo figlio e lo cerca in ogni viso di ragazzino.
Risolvere il caso è impossibile ed evidente al tempo stesso, in quella natura pazzesca, immensa, sconfinata, ostile e che tutto ingoia in quei buchi profondi e avidi come gigantesche fauci.
Il regista Ivan Sen, classe 1972, aborigeno per parte di madre ed europeo per parte di padre, ha sperimentato che cosa significhi la mescolanza di etnie e nel contempo la discriminazione. Cresciuto in Australia, vuole e sa trasmettere l’epica fisicità, l’isolamento metafisico, surreale e a volte ostile di questo immensa terra. Con “Limbo” è in concorso per l’Orso d’Oro alla 73° Berlinale 2023.