Robin ha da poco messo al mondo un bambino nato morto. Accanto a sé ha il suo compagno, Jonas, suo padre e degli amici che fanno il meglio che possono per starle vicino. Ma quando il suo seno inizia a produrre latte il distacco e l’elaborazione del lutto si fanno ancora più dolorosi. Robin decide così di donare il suo latte a quelle madri e quei bambini che ne hanno bisogno. Ma il percorso di donazione, esattamente come quello dell’elaborazione di un lutto lacerante, si rivela più difficile del previsto.

Stephanie Kolk presenta all’interno delle Giornate degli Autori il suo Melk, un dramma privato che trasporta all’interno di un percorso fatto di dolore e voglia di rinascita, frustrazione e desiderio di trasformare la sofferenza in qualcosa di utile. La regia di Kolk – intima e indagatrice, ma mai indiscreta – immerge chi guarda nelle tappe del viaggio di Robin, da una maternità negata a un faticoso tentativo di elaborazione del dolore che sa di voglia di “riscatto”. La macchina da presa indugia spesso e volentieri sul volto e sul corpo di Robin (Frieda Barnhard), immersa in uno spazio – quello domestico – che sembra non appartenerle, circondata da voci e presenze familiari che per lei sono quasi frastuono. Un sottofondo che la distoglie dalle sue tappe di rinascita, che trovano invece inveramento negli incontri con un gruppo di sostegno all’elaborazione del lutto che svolge le sue sedute nel completo silenzio.

Melk fa del silenzio uno dei protagonisti principali della narrazione, onnipresente nel suo essere sia soffocante che salvifico. E mentre Robin si allontana da tutto quello che la circonda per ritrovare se stessa coi suoi tempi e il necessario rigore imposto da una perdita di cui nessuno può comprendere davvero la portata, noi che guardiamo ci avviciniamo al suo sentire. Senza la presunzione di capire fino in fondo e senza che, con una scelta precisa, ci vengano forniti gli strumenti per farlo. Melk è il racconto nudo e crudo di un percorso che si avvicina all’ossessione, la radiografia realistica di un dolore da metabolizzare assumendo un punto di vista tanto privilegiato quanto altro da noi.