L’unico lungometraggio italiano presentato in concorso al 70° Festival di Locarno, il film storico Menocchio, non fa esattamente parte del genere di film che affollano le sale nostrane negli ultimi anni. Scritto e diretto dal friulano Alberto FasuloMenocchio è dedicato a un personaggio storico vissuto proprio nelle terre del regista, il mugnaio Domenico Scandella detto Menocchio condannato per eresia nel ‘500.

Riprendendo un fatto storico reso noto dall’accademico Carlo Ginzburg col saggio Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500Menocchio racconta in modo semplice e lineare la storia di un uomo disposto a sacrificare la vita per difendere i propri principi, una storia resa quasi unica dalla natura dell’eretico in questione, dato che a parlare della presenza di Dio in tutte le cose e a mettere in dubbio il dogma mariano non era nè un grande professore nè un dottore della chiesa, ma l’ultimo dei mugnai che raccontava la sua visione del mondo a parenti e amici.

Partendo dal presupposto che l’età anagrafica di un regista centra poco o niente col suo modo di fare cinema, sembra comunque strano che un’opera come questa venga da un autore appena quarantenne (che in Italia purtroppo è come dire appena ventenne, almeno nel mondo del cinema) al suo secondo lungometraggio. A vedere Menocchio senza sapere chi l’ha fatto lo si potrebbe scambiare, sia per i ritmi della narrazione che per le soluzioni visive e l’atmosfera generale, per l’ultimo film di un grande senatore di un certo tipo cinema intellettuale italiano, vale a dire il cinema solenne ma mai presuntuoso di autori come Olmi o i fratelli Taviani.

Fatto sta che a imperare in Menocchio è una sola parola d’ordine: la semplicità. Semplicità che troviamo nella sceneggiatura, fatta di poche battute, per lo più all’interno degli interrogatori fatti dagli inquisitori al mugnaio e ai suoi conoscenti, semplicità (o meglio essenzialità) nella composizione delle inquadrature, per la maggior parte del film ridotte a camere fisse sul volto del protagonista illuminato appena da una candela nella sua cella. Parlando di luce, un ruolo fondamentale ce l’ha la fotografia, che riesce a restituire al meglio le numerosissime scene ambientate in grotte, celle sotterranee, chiese poco illuminate e segrete che dominano gran parte della pellicola.

Per quanto riguarda il cast invece, salta subito all’occhio l’utilizzo di attori non professionisti ma dai volti segnati che sembrano appartenere a contadini friulani del ‘500 scesi due minuti fa dalla macchina del tempo. Fasulo non ha voluto utilizzare colpi di scena e assi nella manica per usare il suo film (fatta eccezione forse per la sorprendente sequenza in cui gli abitanti del paese umiliano Menocchio girandogli attorno vestiti con pelli e ossa di mucca), ma adottando il più semplice e diretto degli approcci ha raccontato in modo convincente la storia di un uomo legato ai suoi principi che suona come un omaggio del regista sia alla libertà di espressione che alle sue terre.