Come tante immigrate ucraine, Iryna è una madre single che cerca di integrarsi con il figlio adolescente Igor in una piccola città della Repubblica Ceca, tra difficoltà lavorative e burocratiche. Difficoltà che si moltiplicheranno in seguito a una presunta aggressione a Igor che metterà in moto un vortice di sospetti, pregiudizi, bugie e strumentalizzazioni politiche ben più grande di quella che era stata, fino a quel momento, la modesta esistenza di madre e figlio…
Inizia come un film impegnato alla Ken Loach, questo lavoro ambientato in Repubblica ceca dal regista slovacco Michal Blaško e presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 2022: se nell’altra prima visione in lingua ceca passata per il Lido (Ordinary Failures, in concorso alle Giornate degli Autori) i personaggi afferivano a un non meglio identificato ceto medio e agiato, seppure disturbato (e disturbante) con le sue nevrosi e i suoi scheletri negli armadi di villette tirate a lucido, in Victim entriamo invece nei casermoni popolari, i “panelaky” dell’era sovietica, abitati da un proletariato fatto di Rom ed immigrati da paesi più ad Est della Boemia, con il conseguente e spontaneo connubio di idiomi che attraversa tutta la pellicola (ceco, ucraino, russo e romanì, contro il ceco puro e letterario di Ordinary Failures).
La “vittima” del titolo, più che il ragazzo (forse) aggredito da un gruppo di coetanei con il colore della pelle diverso, nella prima mezz’ora di film sembra la madre Iryna, energica ucraina ucrainofona che ha rotto da tempo i rapporti con il marito,sbarca il lunario facendo le pulizie ma sogna di aprire finalmente un suo salone di parrucchiera insieme ad un’amica conterranea (russofona), si scontra con farraginosi moduli fiscali e complicati esami di lingua per ottenere l’agognata cittadinanza ceca (e, per traslato, europea), ha rapporti tutt’altro che cordiali con i suoi vicini di casa Rom. Il calvario percorso perconquistare un’esistenza non solo dignitosa, ma anche ricca di prospettive, non tanto per sé quanto per il figlio Igor (che promette di diventare un brillante ginnasta) ricorda l’iter dell’autobus in cui la protagonista viaggia nelle prime scene, bloccato per ore alla frontiera tra Ucraina e Slovacchia senza che i passeggeri possano fare niente se non arrangiarsi da soli chiedendo un passaggio a chi viaggia in una macchina con targhe europee.
Ben presto, però, quello che poteva sembrare un usuale dramma sociale e familiare dei nostri tempi, realistico, asciutto e con una buona dose di prevedibilità nonostante l’avvio della trama faccia pensare a un giallo metropolitano, prende una piega inaspettata, che porta Iryna (e lo spettatore con lei) a rimettere continuamente in discussione chi rivesta, realmente, il ruolo di vittima – e chi sia il vero colpevole. In ultima analisi, l’amara conclusione cui si perviene è che, nella provinciale cittadina ceca in cui si svolge la vicenda di Victim, specchio efficace di innumerevoli città della provincia europea tanto orientale quanto occidentale, tutti sono colpevoli e tutti sono vittime: ciascuno agisce, in diversa misura, contro quella che dovrebbe essere l’etica condivisa, ma ciascuno ha allo stesso tempo le sue ragioni, più o meno condivisibili. L’inganno volto a garantirsi un tornaconto personale diventa così una difesa contro i soprusi subiti in passato; il razzismo di matrice nazionalista, peraltro meno violento verso gli slavi che verso i Rom, a riconferma che ci sono “diversi” di serie A e di serie B, è in fondo una reazione alla violenza incontrollata delle periferie; le subdole strategie di sindaci e assessori che strumentalizzano fatti di cronaca delicati per conquistare voti alle elezioni, d’altro canto, rappresentano un effettivo aiuto a una parte della comunità.
L’unica a rendersi conto della stridente ambiguità della situazione e a cercare di rimediare ai danni provocati sembra proprio Iryna, finita sotto i riflettori suo malgrado e combattuta tra i propri valori e i propri desideri senza alcuna possibilità di trovare una via d’uscita univoca se non nei pochi gesti di solidarietà che riesce a compiere (l’aiuto finanziario alla giovane madre ucraina del centro di prima accoglienza dove lavora, la testimonianza per scagionare il ragazzo Rom ingiustamente incarcerato…). Ma comunque, nell’epilogo in cui la vediamo insieme ad altri immigrati che come lei si sono appena aggiudicati il passaporto europeo, sembra imbarazzata e a disagio. “Dov’è la mia casa? […] Il paradiso terrestre a prima vista: questa è la splendida terra, la terra ceca, casa mia!” recita, sulle note di una melodia solenne e commovente, l’inno nazionale ceco che risuona in quel momento, e che alcuni neo-cittadini (non Iryna, però) cantano timidamente. Ma la casa che tanti di loro hanno trovato dopo una lunga ricerca, purtroppo, è meno idilliaca di quanto si potrebbe sognare.