Dopo il più che distinto Sils Maria, Olivier Assayas, con un ritmo relativamente serrato per lui, presenta a Cannes 2016 Personal Shopper, seconda collaborazione con Kristen Stewart, vincendo il premio per la miglior regia.
Maureen, personal shopper di una acidissima modella parigina, lavora nel tempo libero come medium, in articolare per superare la morte del fratello Lewis, a sua volta sensitivo. Ma i vari tentativi di mettersi in contatto con lui per andare avanti con la propria vita sono continuamente frustrati, mentre altri fantasmi, assai più inquietanti, sembrano farsi strada in questo periodo della sua vita.
Lungi dall’essere un semplice horror movie d’autore, concetto che oggi sembra andare molto, Personal Shopper affonda le sue radici nella tradizione cinematografica europea degli anni ’60, quella che vedeva sono nella critica francese un riconoscimento del B-movie all’italiana, con tutti i mostri sacri che l’hanno creato e che ne sono stati, per l’appunto, consacrati, Fulci e Bava, in primis. Assayas spezza gli schemi di collegamento tra quell’idea di fare cinema e la moderna vigente. Fa un film intellettualistico per certi versi ma che non ripugna minimamente e anzi sfrutta appieno, scivolando magari volutamente nel pacchiano e nel saturato, un film che di fatto rifugge ogni logica (nel senso positivo e negativo del termine) ma è anche un giallo.
I fantasmi di Maureen, interpretata da una Kristen Stewart che, similmente a Pattinson con Cronenberg, sta trovando la sua salvezza dal mondo del cinema di mero consumo settoriale e il passaggio dallo star system al mondo del cinema, sono tanto carnali quanto indefiniti. È un fantasma sua fratello, ma lo è anche la modella per cui lavora, Kira, che non si fa quasi mai vedere, come lo è il partner di lei, Ingo, invisibile come uno spettro anche se di ordine diverso, come lo è il responsabile degli inquietanti messaggi che Maureen riceve costantemente sul cellulare. Ora, Assayas da una parte gioca con l’autorialità e lo spettacolarità e dall’altra alimenta la sua opera di suggestioni, di piccole sequenze che nella loro modestia trovano grande impatto che s’alternano a appariscenti effetti visivi la cui natura fondamentale non è che quella di giocare a loro volta con lo spettatore, di farlo sorridere del film come opera artefatta e non narrativo-emotiva, giocando sul sottile velo del meta-cinematografico in maniera ancora più raffinata di Sils Maria.
Assayas è americano nella scelta della protagonista, nel soggetto che va a trattare e nell’estetica che utilizza, ma nel come tratta i suoi personaggi, le modalità con cui gestisce il solito annoso e noioso confronto naturale/sovrannaturale e nel rendere consapevole, reiterando a più non posso le sue scelte stilistiche, lo spettatore del gioco che sta conducendo, è certamente europeo. Non gli si può riconoscere certo assoluta maestria nella conduzione del filo narrativo, perché in fondo si sente fin da subito una forte presa sull’immagine che però non va mai a esplicarsi nella semplicità anche del più impuro cinema contemplativo, rimane attaccato alla suggestione ibrida che però non è tale da raggere l’intero film su di sé, dando l’impressione dopo un po’ di senso di perdita dell’atmosfera generale a scapito di un mera forma che vuole dimostrare la sua autonomia, ma in questo stesso processo riafferma l’altro dipolo, intenzionalmente da perdersi lungo l’opera.
Ciò che tiene dunque la struttura di Personal Shopper e la stabilizza è il lavoro immenso che fa Assayas alla regia, immenso perché è onnipresente, costitutivo del film esattamente come le scenografie che vi prendono parte. Assayas gira dei piani sequenza delicatissimi, inquietanti, che vanno a ricercare l’oscurità, la parte ceca della scena forzando l’occhio dello spettatore a seguirlo con movimento ondeggiante per poi, con geniale autoironia del cinema, far galleggiare la mdp di fronte a un ectoplasma in CGI fino a quando lo spettatore non se ne stufa e non ne scorge le imperfezioni. Insiste fino allo spasmo sul cellulare della protagonista, gioca a fare i jumpscare con il monodico suono dell’arrivo del messaggio, a espandere teatralmente l’attesa degli stessi, e non da ultimo svolge un lavoro sull’attrice protagonista che di fatto vale di più della prestazione di questa in quanto artista. La denuda chirurgicamente, crea – ulteriori – fantasmi (del passato che diventano quelli del futuro_la malattia cardiaca) per poi erotizzarla non togliendo i veli ma facendone un tutt’uno con il corpo della Stewart, che si veste con gli abiti di Kira e nel farlo trasla dal nascondiglio dei morbidi e mascolini maglioni e dal tono da ragazzino che cambia la voce all’incognito, al mistero che offrono i lenzuoli di un fantasma, su cui Assayas disegna letteralmente un’opera d’arte eterea, commerciale, sfuggente, sfrontata, potente, effimera.