All’interno della sezione competitiva principale del Festival del cinema di Cracovia, edizione numero 63, è stato presentato quest’anno un documentario particolarmente stimolante e curioso per un pubblico italiano interessato all’arte teatrale, ed in particolare alle sue intersezioni italo-polacche. Si tratta di Radical Move, della regista polacca Aniela Gabryel, dedicato al Workcenter, il centro di sperimentazione teatrale di Pontedera (in provincia di Pisa) dove aveva operato nei suoi ultimi anni di vita il grande regista polacco Jerzy Grotowski.
Jerzy Grotowski è, insieme ad altri grandi registi e teorici polacchi come Tadeusz Kantor, un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi ed appassionati di teatro mondiale. In particolare, poi, egli fu vicino al Belpaese, dove si trasferì negli anni Ottanta, contribuendo con le sue sperimentazioni all’energia un po’ segreta, un po’ mitizzata del famoso Workcenter di Pontedera, dove poté esplorare e mettere in pratica la sua concezione di “teatro povero” e “arte come veicolo”, grazie a cui la stilizzazione scenica e il coinvolgimento estremo degli attori “usati” come corpi essenziali in rapporto diretto con il pubblico gli procurarono fama mondiale e un’aura di guru. Lo svuotamento della scena e l’addestramento quasi ossessivo degli interpreti portava la sua concezione ad esiti sacrali e viscerali, che non rimasero senza discepoli, anzi videro nel suo principale sodale, il nord-americano Thomas Richards, uno dei principali continuatori.
Jerzy Grotowski
Il film della polacca Gabryel ci porta a carpire i segreti di questa originale esperienza, proprio dietro il palcoscenico, ossia nelle stanze del centro di sperimentazione toscano dove Richards ha portato avanti con dedizione totale l’eredità del suo maestro polacco. La regista è nata a Breslavia nel 1985, ha già una carriera interessante alle spalle, con diversi corti premiati in vari festival, un documentario dedicato all’occupazione russa della Crimea (When Will This Wind Stop, 2016) passato al prestigioso festival olandese IDFA e un debutto di fiction in preparazione, ma è forse il fatto di aver studiato sia cinema (alla famosa scuola di Lodz) che teoria teatrale ad aiutarla funzionalmente a filmare gli scontri, le lotte, le ossessioni di cui Richards intesse le sedute di studio. Insieme alla sua troupe prevalentemente femminile la Gabryel entra in sospettosa confidenza con il gruppo di giovani attori usati, maltrattati, portati all’estremo da un ossessionante maestro di teatro che può ricordare lo spietato direttore d’orchestra Terence Fletcher di Whiplash. Del resto patti chiari amicizia lunga: né per Grotowski né tanto meno per il suo continuatore l’arte e l’impegno sul palcoscenico sono un gioco o un passatempo, bensì una missione in cui il Metodo e la Vita si fondono fino a far toccare ed emergere i sentimenti più nascosti e forse più veri.
La sede del Workcenter
Presentati con un’alternanza di riprese delle prove, interviste solitarie ed esperimenti di gruppo, gli attori sono qui praticamente denudati di ogni barriera, spinti all’estremo e più pieno utilizzo della voce, delle proprie doti ginniche, persino delle proprie emozioni più feroci, lasciati a volte esausti, altre volte entusiasti in balia del proprio maestro-padrone. 
Le domande che sorgono sono molteplici: è questa ancora arte o una tortura non necessaria? Siamo di fronte ad un semplice gruppo di lavoro oppure quella che vediamo sullo schermo è in fondo una setta che prova ad andare oltre i limiti della separazione vita-teatro a rischio della propria incolumità mentale? 
Aniela Gabryel e la troupe del film
L’arco temporale seguito è abbastanza lungo da mostrarci gli effetti non secondari di questo approccio totalizzante alla recitazione: dopo qualche tempo il gruppo iniziale si è sfaldato completamente, ragazzi e ragazze provate allo stremo si sono ridistribuiti ai quattro angoli della terra, tornati (si direbbe: rifugiati) nei vari continenti di provenienza, e ancora scioccati dall’esperienza full-immersion cui sono stati sottoposti.
La Gabryel torna dunque sul “luogo del delitto”, dove un Richards solo leggermente più controllato sembra pronto a “violentare emotivamente” un’ulteriore nidiata di provetti attori. Ma è come se ormai noi sentissimo con chiarezza che il training psichico-ginnico-vocale ha le ore contate…
Il risultato finale non è dei più consolanti, con il maestro un po’ abbacchiato che è costretto a terminare le prove, non perché sia stato ucciso come il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, ma semplicemente perché il centro viene chiuso.
Come dire, parafrasando il Bardo: siamo sì fatti della stessa sostanza dei sogni, ma forse a volte salire su un palco può diventare anche un incubo…