Una storia distopica, apocalittica e anche un po’ trash: l’immagine di come potrebbe diventare l’umanità (se di umanità si può ancora parlare) se si continua con certe teorie di razzismo, nazionalismo, bellicismo e disprezzo per l’ambiente. Non assomiglia a un “Blade Runner” e nemmeno a un “grande fratello” o a un “racconto dell’ancella” ma in qualche modo ha un po’, forse il peggio, di tutti e tre.
Eppure, la prima scena sembra un idillio: mostra una lussureggiante campagna attraversata da una ferrovia e affiancata da case e da un boschetto. Questo luogo però non esiste nella realtà, perché è solo una torta, una splendida torta alla crema e cioccolato decorata come se fosse un villaggio bucolico, del quale ognuno si taglia una fetta: chi prende un cespuglio, chi un alberello… Ma poi, ecco i commensali: esseri forse umani che non articolano nemmeno più vere parole bensì versi e grida gutturali, camuffati con inquietanti maschere antigas.
Poi una giovane donna nera (Mwajemi Hussein), che spera disperatamente di scampare al suo destino di una fine orribile, chiusa in una gabbia e portata nel deserto. O meglio, in mezzo al nulla, perché orami tutto è deserto e delle città non restano che macerie causate per qualche guerra ormai sottotraccia, aridità ovunque, formiche che escono da crepe della terra secca, cadaveri di esseri umani penzolanti dalle arcate dei ponti, gettati per strada, emergenti dalla sabbia. E i viventi, quelli che restano, si inseguono e si uccidono a vicenda.
Per quale colpa avvengono queste atroci torture e uccisioni? Da quale tribunale arrivano le condanne? Nulla si sa: nel film nessuno è in grado di articolare vere e proprie parole in una qualche lingua, nemmeno la donna nera, che sembra pregare ma in realtà bisbiglia qualcosa di incomprensibile.
I neri si camuffano da bianchi, con lentia contatto chiare e una specie di borotalco sulla pelle. Ma si tratta davvero di un razzismo esasperato fino alla estinzione, o c’è di più? C’è di certo la perdita della gentilezza, quella che sopravvive solo nel titolo.
Il regista londese naturalizzato australiano Rolf De Heer, classe 1951, ha preso lo spunto, in questo e in altri suoi precedenti lavori, dall’isolamento e dalla segregazione patiti dai nativi australiani, sottoposti ancora in anni recenti a disumani programmi di assimilazione alla cultura “dominante”.
La protagonista Mwajemi Hussein offre una prova di espressività sbalorditiva, riuscendo a manifestare con viso e occhi ogni sorta di sensazione, che non le è dato esplicitare con le parole.
Questa dura e spietata pellicola è in concorso per l’Orso d’Oro alla 73° Berlinale 2023.