Seguo Paola Barbato da molto tempo. No, non è stalking, piuttosto una dichiarazione d’amore. Artistico, ovviamente.
La scoprii nell’ormai lontano 2007 quando, da poco quindicenne, comprai uno dei miei primi Dylan Dog. Si trattava della ristampa del numero 221, intitolato, e qui vado puramente a memoria, Il tocco del diavolo. Ne rimasi folgorata e, desiderosa di leggere tutte le storie scritte da tale Paola Barbato che vedevo accreditata come sceneggiatrice nel tamburino degli albi della Sergio Bonelli Editore, comprai quanti più numeri riuscii a racimolare, portandomi in pari con la lettura del personaggio iconico creato da Tiziano Sclavi.
In seguito scoprii, quasi per caso, che la Barbato aveva anche pubblicato dei romanzi e, impugnando il tesserino della biblioteca della mia città, raccolsi le sue opere e le lessi nel giro di pochi mesi.
Il primo libro cui mi avvicinai fu Mani nude (Rizzoli, 2008) e lo lessi a scuola, durante le ore di matematica. Mentre la professoressa spiegava le equazioni di secondo grado, io sfogliavo il romanzo con estrema assiduità. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quelle parole tremendamente concatenate tra loro e da quella trama così intrigante. Quell’anno presi 4 in matematica, ma questo è un altro discorso.
Stetti male quando lessi Bilico (Rizzoli, 2006): mi impressionò talmente tanto che per un po’ decisi di prendermi una pausa di riflessione. A margine: io faccio fatica a ricordarmi le trame dei libri una volta terminati. Di Bilico, invece, ricordo ancora tutto, per filo e per segno. Vorrà pur dire qualcosa, no?
Riscoprii la Barbato con Non ti faccio niente (Piemme, 2017) e ne restai nuovamente folgorata. Rimasi, invece, delusa dalla lettura di Io so chi sei (Piemme, 2018). Ed è proprio qui che si inserisce Zoo (Piemme, 2019), l’ultima sua opera, uscita da poco.
Paola ha più volte ribadito l’idea che si cela dietro questo romanzo: si tratta di una storia parallela a quella narrata in Io so chi sei, che finisce nello stesso luogo e nello stesso momento. Due sorelle gemelle, quindi, cui spetterà un unico seguito.
Dico la verità: pur conoscendo l’abilità della scrittrice, sono partita prevenuta. Non essendo stata entusiasta della lettura di Io so chi sei, non mi sentivo abbastanza curiosa di conoscerne la vicenda parallela. Tuttavia ho comunque acquistato il romanzo e ho cominciato a leggerlo. Non mi sono più staccata per una settimana. Ogni momento libero, pochi a dir la verità, si trasformava in un’occasione per portarne avanti la fruizione. L’ho letteralmente fagocitato e posso dire ora, a lettura terminata, che Zoo è il romanzo più riuscito di Paola Barbato.
«Immagina di trovarti nel peggiore dei tuoi incubi. Se non riesci a svegliarti, sei nello zoo.» recita la copertina. Ed è proprio in un terribile incubo quello in cui si trova Anna, la protagonista di questa vicenda. Lo zoo altro non è che un insieme di gabbie nelle quali sono state rinchiuse quattordici persone da un rapitore seriale. Ad ogni individuo è stato assegnato il nome di un animale, quindi un ruolo ben definito. Quattordici anime costrette ad essere allevate in cattività. Ed è proprio in questa condizione di cattività che viene alla luce l’animalità di ciascuno. È una sfida contro il rapitore, certo, ma ciò che viene descritto è soprattutto la sfida contro se stessi. Fino a che punto siamo capaci a spingerci quando ci viene negata la dignità e quando dobbiamo combattere per la sopravvivenza? Un’indagine puramente sociologica di 435 pagine, nelle quali la Barbato mette in luce la corruttibilità dell’essere umano, le crepe nell’anima di ciascuno, le proprie zone oscure. In un gioco in cui viene mostrata come sia fragile ogni convenzione sociale, il potere è l’unica cosa che conta per poter sopravvivere.
Anna, la sfortunata protagonista del romanzo, è una donna di trent’anni, con una salda istruzione alle spalle e una carriera avviata nel mondo dell’interpretariato. Non è l’eroina buona, innocente e, soprattutto, non è fragile e influenzabile come lo era invece Lena di Io so chi sei, un personaggio, per certi versi, speculare.
Anna è capace di enorme cattiveria e crudeltà, motivo per cui sarà difficile riuscire ad empatizzare con lei ma, nonostante questo, il lettore si troverà a tifare per la sua salvezza e soprattutto, e qui il merito è sicuramente del talento cristallino della scrittrice, ad ammirarla. Perché Anna è fredda, calcolatrice, lucida, non perde la calma nemmeno in una situazione tanto difficile. Riesce a trasformare il suo più grande difetto, l’impulsività furiosa, in un punto di forza, volgendo così la sua condizione critica in un vantaggio personale.
Non solo crudeltà: nello zoo ci sono anche momenti di profonda umanità, pochi ma pur sempre significativi. Nonostante ogni rapporto creatosi sia pur sempre un legame di potere, vi sono comunque sprazzi di sentimentalismo e solidarietà.
Un microcosmo che si dipana ai nostri occhi di lettori nonostante le arrugginite sbarre delle gabbie che cercano di intrappolarlo. Una vicenda claustrofobica che, per certi versi, richiama Necropolis (Dylan Dog, 212) o La gabbia (Le Storie, 20), sempre di barbatiana memoria.
Una scrittura efficace, diretta e dolorosa come un pugno allo stomaco. Una lettura difficile ma straordinaria e, proprio per questo, da non perdere.
Voto: 9/10