“Jailanur” di Zhao Ye

Elegia del ferroviere in pensione

Torino 27
Jailanur è una miniera di carbone nel nord della Cina, al confine con la Mongolia, attraversata da una ferrovia su cui transitano esclusivamente treni a vapore. Qui lavorano il vecchio Zhu e il sempliciotto Zhizhong; il primo, lontano dalla famiglia e vicino alla pensione, ha praticamente adottato il giovane amico che, d’altra parte, sembra andare d’accordo esclusivamente con Zhu, con i bambini del luogo e con gli animali.

I due condividono i turni di lavoro e il giornaliero viaggio di ritorno verso casa, sostanzialmente passando l’uno accanto all’altro intere spensierate giornate. Fatalmente giunge il momento in cui Zhu deve andare in pensione e tornare dalla famiglia, nel sud. Il vecchio tenta di allontanarsi in maniera indolore da Zhizhong, il quale si impunta e lo segue fino all’incontro con i due figli. Qui, quando ormai Zhu sembrava disposto ad accogliere nella sua vera famiglia il collega, avviene un inaspettato, sentito e giusto addio.

Nel cinema asiatico la figura del ferroviere è equivalente, nel cinema western, a quella del pellerossa: appare nella maggior parte delle pellicole e quasi sempre fa una brutta fine. A parte le boutade di bassa lega, rimane il fatto che negli ultimi anni il cinema cinese continentale ha eletto la figura professionale del ferroviere a personaggio simbolo di una certa sensibilità neorealista. La vicenda di base è sempre quella: vecchio ferroviere, disincantato e ipertabagista, raggiunge suo malgrado l’età pensionabile limite inderogabile dopo il quale, in Cina (paese burocratizzato come pochi) più che altrove, il lavoratore diventa materiale da rottamazione. Da quel momento iniziano altri problemi: di salute, di denaro, ma specialmente nei rapporti con la famiglia (leggi: coi figli trenta/quarantenni, generazione che guarda quasi con disprezzo il parentame pre capitalista). Il filo degli eventi, quindi, prende di volta in volta il piglio e il taglio deciso dalla sensibilità del regista.

Anche in questo caso il canovaccio procede abbastanza prevedibilmente: Zhu viene rottamato dal partito, prende i suoi pochi bagagli e la sua schiena piegata da decenni di lavoro cinese e dal lontano nord ritorna presso la famiglia che, a quanto si può presumere, non vede da tempo. La variante, in questo caso, oltre a un protagonista più remissivo e silenzioso del solito, è la figura del guitto sensibile Zhizhong. Il giovanotto, che sembra vivere esclusivamente del rapporto con l’amico/padre Zhu restando, per il resto, ai margini della società, dona al film un insperato tocco di follia e anarchia, decisamente raro in operazioni del genere. Girato dal regista Zhao Ye con un ottimo HD, il film risente di una complessiva mancanza di ritmo e di una carenza di solidità. Le usuali, incantevoli e ricercate immagini non riescono a risollevare le sorti di un lavoro nato con buoni presupposti e ottime competenze tecniche; buoni propositi che naufragano presto in una noia informe, nonostante il rarefatto spunto finale.

regia, sceneggiatura, montaggio, produttore/director, screenplay, film editing, producer: Zhao Ye
fotografia/cinematography: Zhang Yi
scenografia/production design: Chen Houquan, Zhen Hongge
costumi/costume design: Gong Ping
musica/music: Lin Zhaoyang
suono/sound: Chen Ting
interpreti e personaggi/cast and characters :Liu Yuansheng (Zhizhong), Li Zhizhong (l’anziano/Old Zhu)
produzione, vendita all’estero/production, world sales: Tianlin Film Productions, BJCN