“LUMI DALL’ALTO” DI GIGIO BRUNELLO E GYULA MOLNAR

Storia d’amore e tenerezza per ragazzo, ragazza e città

Quando si ha a che fare con storie di migrazione – soprattutto in questi anni ancora più gravemente razzisti dopo chilometri di calpestatissime carte di diritti dell’uomo, accordi internazionali, eccetera eccetera – la tristezza è dietro l’angolo. Perché, quasi sempre, si ha a che fare con il dolore dell’uomo, con l’ingiustizia, con l’assenza di compassione.

E in questo modo il migrante continua a rimanere sempre qualcun altro: quell’altro che soffre, quell’altro che scappa, quell’altro che “tornatene-a-casa-tua”. E il dolore, insieme a tutte le sue sfumature, come la rabbia, allontana: istintivamente, se non si ha una buona dose di disponibilità all’empatia, ci si tiene alla larga dalla negatività. È cruda sopravvivenza.

E allora Gigio Brunello, in Lumi dall’Alto (visto al teatro di Ca’ Foscari a Santa Marta, Venezia), compie un piccolo miracolo: quei migranti che racconta te li mette in braccio, te li fa coccolare, te li fa entrare dentro in quella sfera di percezione che non ha niente a che fare con i razionalissimi concetti di giustizia, o di diritto, ma che riguarda piuttosto la condivisione emotiva: di emozioni belle. E le emozioni belle le vogliamo, le amiamo, le sappiamo condividere.

Innanzitutto, i suoi migranti non vanno più di moda: Kira e Ginko, i protagonisti di questa storia, sono albanesi. Roba vecchia: la rabbia del celodurista non è più puntata su di loro, e quindi nemmeno le telecamere. Possiamo seguire la loro storia un po’ più rilassati.

Poi, punto secondo, la loro è una storia d’amore: una storia bella! Vabbè che Kira era destinata a un grasso grosso matrimonio canadese, ma Ginko ce la fa lo stesso: scalza il pretendente e si sposa la sua bella. E ci nasce pure un bambino.

Punto terzo, è la storia di una famiglia: e chi di noi non sa cosa vogliano dire un fratellino curioso, un padre un po’ all’antica, una mamma bravissima a cucinare, una zia lontana? Tutti. Sono dinamiche che conosciamo perfettamente: ancora una volta, relax.

Punto quarto: la voglia di riscatto. Ginko lavora in nero, ha messo da parte cento euro. Quando arriva a mille si vuole sposare. Cosa c’è di strano? Non sono mica vicende “da migranti”, queste: è ordinaria amministrazione della gioventù italica anni 2000.

Punto quinto, e questo è parecchio importante: siamo a Mestre. Dopo Vite senza Fine e Teste Calde, Brunello continua a raccontarci la sua città: sua, e della platea che questa sera lo ascolta. Siamo qui, in luoghi decisamente familiari. Siamo alla Cipressina, siamo al cantiere edile del Geometra Vianello, siamo in via Poerio e precisamente al semaforo dell’edicola; e al massimo ci spostiamo sulla Riviera del Brenta. Siamo a casa: e a casa si sta sempre bene. Questa narrazione geografica ci mette comodi.

E sì, Kira e suo fratello sono arrivati in gommone di notte. E sì, Vassillac – l’amico degli sposi – , fa il furbetto con le corse clandestine. E sì, Ginko viene arrestato perché non ha i documenti. E sì, la povertà c’è, e gli sposi fanno finta di celebrare un matrimonio in grande stile per mandare almeno qualche foto illusoria ai parenti in Albania. Però tutto questo non è il centro del racconto, come di solito avviene nelle storie di migrazione. Il centro è l’essere umano, i suoi amori, le sue follie.

Perché Kira e Ginko se ne volano insieme su un cavallo alato, innamorati pazzi. E Kira potrebbe essere una migrante albanese ma anche la principessa Sissi: il sogno è lo stesso. Nella nostra città, nel condominio accanto al nostro, c’è una ragazza innamorata. Albanese? Chissenefrega. Ragazza.

La tenerezza e la dolcezza di questa storia disarmano. Anche perché, si sa, Gigio Brunello le sue storie le fa raccontare agli oggetti, non agli attori in carne e ossa: e questo conduce lo spettatore, quasi inconsciamente, nella sfera dell’infanzia, che è la sfera della tenerezza, dove un giocattolo aveva a pieno diritto lo status di essere vivente. Le sculture di Gigio Brunello sono i personaggi di questa storia: il suo “teatro degli oggetti”, così viene definito, è un micromondo di statuine. E lui, Brunello, le prende, le sposta, le fa parlare, ci parla. Dà loro vita ma senza animarle: la loro vita ci arriva attraverso di lui, il suo corpo, la sua voce di cantastorie. E così le statue, anche se non si muovono, sembra che di volta in volta cambino sguardo, che stiano in apprensione, o che esplodano di felicità. È esattamente quello che accade ai bambini quando giocano con le loro bambole preferite: le loro emozioni, le loro storie, sono tutte proiettate sull’oggetto, che nel momento in cui è toccato dal loro sguardo, diventa un compagno di emozione. Vero, vivo, da tenere in considerazione.

Gigio Brunello, che ha costruito Lumi dall’Alto – Corse clandestine in città con Gyula Molnar, collaborazione ormai di vecchia data, è un maestro in questo. In questo spettacolo, poi, aggiunge il tocco femminile della figlia Rosa Brunello, contrabbassista e anima del quintetto che da lei prende nome, con un paesaggio musicale da lei scritto: che coccola, rallegra, ci fa entrare in una casa dell’Est con i suoni un po’ allegri, un po’ malinconici della musica dei Balcani. Senza stereotipi alla Kusturica-Bregovic: ma ancora, con la delicatezza di uno sguardo (questa volta musicale) che si posa su una famiglia che si ama.

Raramente si esce da teatro con una sensazione di riconciliazione. Gigio Brunello riesce in questo e va molto oltre: regala una fiaba e un sogno a occhi aperti e, anche se non lo dice, in modo delicatissimo, combatte una lotta. Perché, attraverso la tenerezza, quei chilometri di calpestatissime carte sui diritti dell’uomo diventino banali quotidianità.

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