“Le vie dei canti” di Bruce Chatwin

Un incontro casuale

Venire a contatto con uno scrittore di cui avevamo già sentito parlare è sempre una questione di fiducia. Ci si aspetta che egli soddisfi le nostre aspettative, che ci dimostri di essere ancora in grado di creare, che il nuovo frutto della sua fatica non ci deluda e non rappresenti un declino verso la ripetizione modulare e stilistica di temi già affrontati (come spesso capita, anche l’autore più affascinante tende a sedersi sulla comoda poltrona dell’abitudine).

Acquistare, invece, un libro di cui non si conosce nulla – se non il breve commento sul retro – è sempre una questione di coraggio. Proprio in uno di questi tuffi nel vuoto mi è capitato di incontrare Bruce Chatwin.
Tra le pile di libri Adelphi ordinatamente disposte da un oculato libraio, una sorta di forza misteriosa mi ha attratto verso un testo in particolare, “Le Vie dei Canti” – un titolo molto accattivante dal retrogusto esoterico, dovuto forse alle maiuscole o allo splendido potere evocativo che la parola Canto fa risuonare inevitabilmente nel nostro animo.

Il libro non è altro che il resoconto di un lungo periodo di tempo trascorso presso le popolazioni indigene australiane, comunemente note come aborigeni, scritto con uno stile estremamente limpido, chiaro, che lascia trasparire una sostanziale sicurezza nell’autore, “turista” (come si definirà in un altro libro, “Cosa ci faccio qui?”) del mondo.

Bruce Chatwin conosce i tempi della narrazione, sa colpire il lettore e renderlo partecipe delle sue scoperte interiori, impegnandosi con uno zelo metodico e ordinato a scansare quello scomodo velo di Maya che nasconde l’eterno mistero dell’uomo: Il Mistero del Viaggio, dell’Errare, che l’autore traspone magistralmente in un discorso di stampo storicistico, ma intensamente poetico, sulle origini del nomadismo. Il fatto che nel libro la più scientifica e razionalistica delle spiegazioni si incontri con uno stile estremamente evocativo ed immaginifico è spiegabile soltanto attraverso il vissuto dell’autore e, in particolare, attraverso il suo mestiere.

Chatwin, in effetti, oltre ad essere un acuto osservatore, è anche un brillante storico dell’arte, formatosi in un’importante casa d’aste britannica: nel libro riporta la conversazione avuta col suo medico che, dopo averlo visitato, notato un drastico abbassamento della vista gli consigliò di smettere di guardare da vicino i quadri per rivolgersi invece all’orizzonte.

Come poteva un uomo sensibile alla molteplicità delle forme e dei colori non prendere alla lettera un invito così seducente?
Da sempre consideratosi estremamente fortunato – se per fortuna si intende l’assistere alle più varie vicende umane, nel bene e nel male -, curioso, gioviale, sensibile ai cambiamenti all’esterno e all’interno di sè, egli ha sublimato la sua esperienza totale, sensibile ed intellettuale, di conoscenza del mondo australiano in questo racconto, scrigno di una molteplicità di tipologie narrative (aneddotica, poesia, descrizione, dialogo) e di memorie individuali, spesso arricchite di un accento visionario ed incantato.
In fin dei conti, per quanto l’autore ci lasci intendere una consapevolezza matura di viaggiatore navigato, quello che ho trovato in “Le Vie dei Canti” è il racconto di un bambino che passeggia per le strade di un mercato affollato.

E’ proprio per riscoprire questa tenerezza di fronte alle vicende umane che ve lo consiglio.