Accompagnato da una splendida Scarlett Johansson, torna a Roma il settantenne regista newyorkese per presentare “Match point”, nelle sale italiane dal 13 Gennaio e distribuito da Medusa in duecentocinquanta copie.
Arriva nell’abbigliamento che gli è più comodo, pantaloni di velluto marrone, una camicia bianca che quasi si perde sotto il maglioncino grigio. Gli occhialioni neri nascondono due occhi che sembrano piccole fessure. Più che scocciato sembra rassegnato alla solita trafila che accompagna ogni suo lavoro: spostarsi più avanti o più indietro, prendere la luce, abbracciare gli attori per le foto di rito e rispondere alle domande, spesso cretine, che la stampa gli rivolge. Si rilassa, nei momenti di pausa, conversando con la splendida Scarlett, sussurrandole all’orecchio e scrivendole bigliettini. Woody Allen, nonostante l’età e gli acciacchi è lo stesso di sempre, un pò claudicante, ma pieno di spirito e di vitalità. Lo sguardo svogliato con cui si rivolge ai giornalisti si discosta incredibilmente da quello docile e quasi paterno che mostra alla sensualissima attrice inglese (protagonista anche del suo prossimo film, Scoop).
E mentre tutti cercano di tirarlo metaforicamente per la giacchetta, richiamando più o meno esplicite citazioni o influenze all’interno del suo Match Point (Hitchcock, il noir, i sensi di colpa), Allen risponde così: “Di solito siamo influenzati da quei registi che in qualche modo ci hanno plasmato senza rendercene conto. Parlo di Hitchcock, Bergman, Fellini. Ma Match Point è nato da un’idea che mi è venuta mentre ero a casa. Ho pensato che sarebbe stato interessante mettere in scena un personaggio che, invece di uccidere la vittima prescelta, facesse fuori il suo vicino di casa, tanto per depistare dal delitto che voleva inizialmente compiere”. E ancora: “Il pubblico tende ad essere indulgente con questi personaggi perché loro non sono cattivi. Vivono in un contesto lussuoso e borghese e non hanno nessuna intenzione, all’inizio del film, di compiere determinate azioni”.
E si dice assolutamente certo dell’importanza della fortuna nella vita: “Sono sempre stato fortunato, ho sempre fatto quello che desideravo, come lo desideravo e quando. In fondo anche la critica e il pubblico sono sempre stati gentili con me, hanno sempre osannato gli elementi positivi del mio cinema, tralasciando i peggiori”. E Match Point parla proprio dell’importanza della fortuna: “In una partita di tennis, se la pallina tocca la rete, abbiamo due possibilità davanti a noi: se la pallina supera la rete la partita è vinta, ma se invece rimbalza e torna indietro è persa”.
La colonna sonora del film, l’opera lirica, sostituisce dopo tanti film il tanto amato Jazz: “I protagonisti sono dei mecenati dell’Opera e il film stesso ha tutte le caratteristiche di un’opera lirica: la passione, il desiderio, il sangue. Così mi sembrava opportuno che ad accompagnare certe scene ci fosse un sottofondo simile”.
Parlando di se stesso dice: “L’elemento fondamentale è il genio. Io non sono un genio e a volte credo che l’unica cosa che mi separi dalla grandezza, che mi frappone ad essa, sia io stesso”. Il pessimismo alleniano è carico della solita e dissacrante ironia. Convinto come sempre di non avere a disposizione i tratti del grande artista e di non aver mai fatto, in tutta la sua carriera, un capolavoro degno di tal nome. Ma l’applauso tributatogli, la lunga coda per gli autografi e per stringergli la mano, dimostrano che così non è.