Dopo l’apertura della sezione parallela per eccellenza, la SIC, con Tumbbad, quest’oggi si apre il concorso ufficiale della settimana della critica della Mostra del Cinema di Venezia del 2018. E quando già nella prima riga di un articolo si fa menzione delle parole “donne” e “armi”, siamo già in una condizione tale da riuscire a capire di cosa tratta il film, persino senza procedere oltre. Ma questo aKasha è differente, è una commedia satirica in cui le belle ragazze e i fucili diventano macguffin per esplorare in appena una giornata come funziona quella parte di Sudan ora controllata dalla fazione ribelle.

Kuka è un giovane regista sudanese, attivo particolarmente però anche sul piano della pura teoria, lavorando nell’insegnamento e nella formazione di giovani cineasti. aKasha è il suo primo lungometraggio di fiction, quando prima s’è fatto conoscere con un paio di documentari sulla situazione bellica e a P.O.V, una rete televisiva che aiuta questo genere di registi. Il budget rimane risicato, e talvolta nell’opera ben si nota questa caratteristica, ma il lavoro che riesce a imbastire pur con tutti i suoi difetti è difficile da disprezzare, vuoi per lo sguardo ironico con cui affronta un tema complesso, vuoi per l’assoluta mancanza di retorica. Kuka non si fa problemi a dipingere il suo protagonista, venerato dalla sua comunità come eroe di guerra, come uno sbruffone e un donnaiolo impenitente, nonché parecchio ipocrita. Stiamo parlando di Adnan, soldato che tarda a rientrare in servizio militare da una licenza straordinaria concessagli per aver abbattuto (per sbaglio) un drone, e che quindi dovrà ingegnarsi, assieme all’amico Absi, per recuperare il fucile in dotazione e sistemare la questione.

L’arma in questione è un kalashnikov amorevolmente soprannominato Nancy, che però si dà il caso essere pure il nome della precedente ragazzi di Adnan, motivo per il quale l’attuale fidanzata Lina lo caccia dalla capanna di fatto sequestrandogli l’oggetto. Chicks & guns, ma per una volta, in tutt’altra salsa, cioè quella di una satira genuina e slapstick a tratti capace di mettere alla berlina il Sudan rivoluzionario, la sua propaganda e relative falle con una leggerezza di stampo davvero fine. Viene presa di mira la mentalità che si inculca nei giovani guerrieri, quella dell’invincibilità e del potere, tale da uccidere sul nascere ogni forma di amministrazione che non sia basata sulla violenza e da obbligare ogni persona a restituire tutto così com’è, persino gli insulti o le carezze devono essere riportati fisicamente; ma anche la rigida procedura della “kasha” (il procedimento per la ricerca dei disertori) è squadrata sotto la lente d’ingrandimento, e diviene ben presto solo un perfetto esempio dell’andamento meccanico della guerra, scaturita più che altro da interessi privati, mentre una serie di persone devono subissarsi l’incarico di formare le giovani menti.

Adnan cambia in seguito alla sua disavventura, ma neanche troppo. Se è capace di togliersi di dosso l’immagine che si vuole egli dia di sé, non abbandona quello stesso culto della superiorità con le proprie amanti, specie nel momento in cui ognuna di esse scopre della altre (sono tre in totale) facendo sì che la confessione pseudo-sincera del protagonista si trasformi rapidamente in una colossale figuraccia. Episodio esilarante che segna la degna conclusione per un film dalla comicità spontanea, satirico solo implicitamente, ma non per questo meno forte nella sua disamina. Chiaramente non parliamo di una rivelazione, però, come spesso accade per questo genere di pellicole che mostrano grande passione per il cinema, si rende difficile notarne le pecchie e valutarle tali da incrinare quella che resta comunque una pellicola solida che ben centra il proprio obiettivo.

Kuka non ha paura di osare e in più di un’occasione abbandona il suo registro realistico (tipico della macchina a mano, ma la regia di tutta l’opera rende consapevoli del fatto che aKasha è stato girato a camera singola) per abbordare gli stilemi dell’onirico, perdendosi per un attimo nei meandri della mente di Adnan per estrapolarne insicurezze e sogni (donne a parte, s’intende), utilizzando una CGI che non ha paura di uccidere la sospensione dell’incredulità pur di portare a termine il discorso. Allo stesso modo fa aperta ironia sulla vera faccia dei protagonisti, vestendoli da donne e scimmiottando le figure della commedia commerciale tipica che si vede un po’ in tutto il mondo, creando la classica coppia con un personaggio apertamente di pura linea comica e uno che vorrebbe essere serio ma non ci riesce. Ecco, se proprio si vuole trovare un difetto sostanziale ad aKasha, bisogna puntare il dito verso le interpretazioni, unico elemento veramente amatoriale in un film che di fatto lo è ma non lo ricorda quasi mai.