In un futuro non troppo lontano, nel 2025, la guerra russo-ucraina è finalmente finita, ed è tempo di guarire ferite, nei corpi, nelle anime, nella terra. Un gruppo di ex-militari ucraini, aiutati da organizzazioni umanitarie, è impegnato nei timidi prodromi di quella che sembra essere una lunghissima, faticosa opera di ricostruzione, interna ed esterna, di una zona di guerra.

Valentyn Vasjanovyc è uno dei registi e uomini di cinema più dotati della “nuova nidiata” ucraina. Grazie a un gruppo di giovani produttori estremamente intraprendenti e coraggiosi (qui Vladimir Jacenko, che ha già portato a Cannes l’ottimo Homeward di Nariman Aliev) e grazie all’imprescindibile aiuto dell’Agenzia di Stato ucraina per il cinema diretta da Pylyp Illienko (figlio di un classico del cinema nazionale) questi ragazzi e ragazze (moltissime sono infatti le donne…) dai trent’anni in su potrebbero rappresentare la nuova “onda” da studiare sulla mappa del cinema europeo.

A conferma che siamo testimoni di una sorta di koine, di una comunità creativa che interagisce, di una serie di elementi creativi che ritornano, evolvono e si compendiano, ricordiamo che, oltre ad essere al suo quarto lungometraggio, Vasjanovyc è stato il dop e produttore di The Tribe di Myroslav Slaboshpyc’kyj, finora forse il maggiore successo internazionale del “nuovo cinema ucraino”. E, naturalmente, alcuni elementi formali di quel film si trovano anche in questo suo esordio alla Mostra di Venezia, di cui ha curato in prima persona la fotografia: la prevalenza per toni freddi e quasi desaturati che entrano in sintonia con l’umore post-atomico della natura rappresentata, la forte cifra stilistica che predilige campi lunghi e totali all’interno dei quali si muovono ora masse pulsanti in lotta, ora singoli che combattono invece con i propri traumi interiori, le esplosioni improvvise di violenza…

Ma, tornando a parlare, come è giusto, in maniera specifica di questo Atlantide non possiamo non notare che esso rappresenta una sfida formale ampiamente vinta: la prevalenza per la centralità delle inquadrature, l’economia verbale che si trasforma a tratti in silenzio urlante e significativo, la scelta coerente e funzionale dell’inquadratura fissa e simmetrica, tutto si inquadra in un progetto lucido e in perfetta consonanza con la drammaturgia. Un soldato ucraino reduce dagli scontri con i separatisti del Donbas soffre di sindrome da stress post-traumatico, e la sua dolorosissima odissea alla ricerca di brandelli di equilibrio interiore lo porta, quadro dopo quadro, piano fisso dopo piano fisso, nelle fasi di una sorta di Via Crucis divisa in (andiamo a memoria) una trentina di pale d’altare immerse nel fango e nella devastazione naturale.

Ogni sequenza rappresenta un ulteriore passaggio nel processo di riconoscimento dello stato di crisi, uno snapshot che arricchisce la cartella clinica di una psiche scossa dalle esperienze pregresse, ma anche congelata nell’assenza di prospettive. Solo un paio di volte Vasjanovyc rompe la regolarità teatrale (si intenda bene: da teatro anatomico) degli episodi di questa discesa e risalita dagli Inferi; la prima volta avviene quando il protagonista viene seguito dalla steady-cam nella perlustrazione della sua vecchia casa, abbandonata per via della guerra e ritrovata distrutta e disseminata di tracce di violenza. Il suo vagare stanza dopo stanza alla ricerca di echi lontani di pace domestica ha qualcosa di post-cernobyliano: è come sondare con il dosimetro della memoria il livello di radioattività umana che è ancora percepibile fra vetri frantumati e scie di pallottole nel muro. La seconda volta è, sul finale, quando (spoiler alert) lo stesso soldato sembra trovare una via d’uscita al suo labirinto traumatico nell’incontro con un corpo, e siamo testimoni di un pudico avvicinarsi della mdp ai protagonisti: per la prima volta non è il cadavere di un commilitone o di un ex-nemico fatto impietosamente a pezzi dai proiettili, ma un oggetto vivente, la donna con cui non scopa, non fa l’amore, non si scambia fluidi corporei, ma testa piuttosto la sua sopravvissuta capacità di interagire con qualcosa di vivo.

La morte è onnipresente, nelle meticolose, scientifiche, accurate, quasi insostenibili autopsie dei cadaveri ormai mummificati (sono stati utilizzati autentici medici dissettori); nei gesti nervosi e automatici con cui gli ex-combattenti continuano a sparare ossessivamente ai propri fantasmi, simboleggiati dalle sagome del poligono di tiro; nelle attività produttive, esse stesse moribonde, in quanto la fucina dove provano a rifarsi una esistenza lavorativa è luogo di suicidi, e viene chiusa dai ben noti, soliti tagli “ristrutturanti” del capitalismo (no, la fine della guerra non lo ha reso meno aggressivo). La morte rischia di avviluppare anche il cinema, la storia delle sue tracce: in uno degli episodi più sorprendenti, la lotta e le proteste degli operai licenziati si svolgono sotto l’egida (non più tanto) protettiva delle immagini di un film costruttivista sovietico (se non ci inganniamo, Vertov?).

Da un punto di vista, per così dire, “ideologico”, siamo molti contenti nel constatare che le posizioni espresse dal film sono ovviamente riconducibili agli eventi tragici che stanno ancora insanguinando l’est del paese e li hanno più che rispettosamente presenti, ma che ciò non si concretizza in scelte espressive semplificate o iper-polarizzate (tanto meno si può parlare di “propaganda”): in questo ipotetico futuro solo apparentemente pacificato si coglie da alcune battute quasi casuali che il ponte che unisce Russia e Crimea è stato distrutto, che lo stato ucraino ha riconquistato il controllo delle repubbliche separatiste, ma ciò non va oltre la nota di sceneggiatura e non si trasforma in quello che potremmo definire “messaggio” del film (ogni tanto è bene usare terminologie un po’ antiquate…). Ciò che queste sezioni scavate nella terra martoriata e nelle menti bombardate rappresentano, un piano sequenza dopo l’altro, è un dialogo con una possibilità, con una utopia prossima futura che si svela essere tutt’altro che risolutiva: anche dopo la guerra le ferite rimarranno in sostanza non rimarginabili, Madre Natura non dimentica gli scoppi di odio in forza di semplici accordi di pace firmati su pezzi di carta. La cicatrice, qui, è interiore: le miniere sono allagate, le falde avvelenate, il terreno minato all’inverosimile rigurgita (pezzi di) cadaveri, è come se la Terra avesse una sifilide incurabile per cui non esiste antidoto umano.

Quello che si può fare è SCAVARE: negli strati ispessiti dei propri orrori intimi, nelle fosse comuni in cui fai ormai fatica a distinguere le appartenenze di battaglione, nella coscienza flebile e dolorante di una comunità umana che è stata inondata da un rigurgito di sangue.

Se sei fortunato troverai il vagito, il sudore, un fiotto di sperma di un continente sommerso: l’essere umano.