Baku, autunno 2020. Mentre, in seguito a una nuova recrudescenza, la guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo della contesa regione del Nagorno-Karabakh continua a mietere vittime al di là dei successi militari della parte azera, la giovane Banu fatica a gestire la separazione dal possessivo e violento marito Javid, soprattutto per la spinosa questione dell’affidamento del piccolo figlio Ruslan…

È fin troppo facile tracciare un parallelo tra storia personale e Storia nazionale nel lungometraggio di debutto della giovane regista Tahmina Rafaella, il cui lavoro è stato supportato nell’ambito del progetto Biennale College Cinema e, ora, presentato al pubblico nei primi giorni della Mostra del Cinema 2022. La regione di confine del Nagorno-Karabakh contesa da Armenia ed Azerbaigian fin dai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica pare riflettersi in miniatura nella figura del piccolo Ruslan, per il cui affidamento i genitori Banu e Javid lottano senza esclusione di colpi e lettere degli avvocati, nella migliore tradizione dei film incentrati su divorzi e dissidi familiari. Nondimeno, le implicazioni di questo ritratto in medias res dell’Azerbaigian contemporaneo, che nella recitazione degli attori e nell’approccio del direttore della fotografia omaggia senz’altro certo cinema iraniano recente in cui si raccontano drammi familiari e tensioni sociali (pensiamo in primo luogo, ovviamente, a Una separazione di Asghar Fahradi) sono sicuramente più profonde.

L’ultima fase della guerra in Nagorno-Karabakh, che anche sulla spinta della mediazione russa e turca ha portato l’Azerbaigian a riprendere il controllo di una serie di territori collocati da trent’anni sotto la giurisdizione armena, in un frozen conflict impregnato d’odio e mai davvero risolto, ha avuto un impatto enorme sulla società azera, ed è tanto interessante quanto inquietante vederne la mitizzazione (e la mistificazione) in sordina a tutto il film: i graffiti e i banner sulle auto che celebrano i “martiri” diciottenni uccisi al fronte (gli “shahid”, come vuole la tradizione islamica, in questo caso martiri non per la fede, ma per la patria), i nomi dei villaggi “liberati” del Karabakh imparati a memoria dai bambini a scuola, le bandiere sventolate ad ogni angolo, gli slogan patriottici, i discorsi televisivi in lacrime del presidente Aliev dopo l’ultima vittoria, per arrivare all’idea condivisa da molti secondo cui “non ci sono armeni buoni” – tra parentesi, a due anni di distanza da una guerra che in Europa ha fatto meno clamore rispetto a quella attualmente in corso tra Russia e Ucraina, non possiamo non notare delle somiglianze con le immagini e le parole della propaganda sul Donbas. Il linguaggio del nazionalismo militante, d’altronde, non ha molta fantasia…

E l’Azerbaigian post-sovietico del 2020 non ha solo impresso in modo indelebile, nella sua memoria collettiva, i contrasti e i traumi di oltre un quarto di secolo fa, irrigidendoli e fossilizzandoli in un ottuso sentimento patriottico di eccezionalità, ma ha anche mantenuto tanto le ben note dinamiche del patriarcato di matrice islamica (nonostante la sua teorica laicità), quanto le meno note pecche strutturali della famiglia disfunzionale tardo-sovietica (la madre che alleva da sola una figlia e tende a posizionarsi come figura quanto mai ingombrante nella vita privata di quest’ultima). La doppia identità, musulmana e sovietica, del paese si rispecchia anche nelle due lingue (azero – lingua affine al turco – e russo), armonicamente integrate nella parlata quotidiana della protagonista e del piccolo Ruslan, nonostante la famiglia patriota di Javid prema per l’uso esclusivo dell’azero.

E Banu cerca di integrare armonicamente non solo le sue due lingue madri, ma anche – e pare che sia l’unica a farlo tra i personaggi del film – la tradizione e l’innovazione, la maternità e il lavoro, il desiderio di creare una famiglia nucleare e la possibilità di chiamarsene fuori e di crearne un’altra senza stigma sociali di sorta, e, cosa più importante, l’appartenenza al proprio paese e il rispetto nei confronti di chi, alla radio e in casa, viene ostinatamente chiamato “nemico”. In questo senso, i grandi occhi neri e pieni di speranza dell’attrice protagonista Kabira Hashimli sembrano quelli di un’inguaribile pacifista, portata ad aborrire qualsiasi tipo di violenza, che si tratti di quella domestica di Javid (manesco nonostante l’élite sociale ed economica a cui appartiene – e di disparità sociali, nella Baku filmata da Tahmina Rafaella, ne vediamo davvero molte) o di quella delle bombe al fronte. Se Banu rischia di vedersi strappare via suo figlio dalla violenza del marito, tante, troppe donne azere non hanno più potuto vedere i loro figli a causa della violenza della guerra, che nessun proclama patriottico, nemmeno il ritorno a una casa persa trent’anni prima, potrà mai giustificare fino in fondo.

Ci sono dunque diversi spunti degni di nota nelle traversie di questa intensa protagonista femminile caucasica alla ricerca di diritti e solidarietà, e del suo travagliato paese insieme a lei. E alcune ingenuità della sceneggiatura (forse troppo rapido e radicale il cambiamento della madre russofona di Banu, prima solidale con Javid e con la conservazione del nido familiare, poi alleata senza se e senza ma della figlia; il personaggio di Javid è fin troppo simile al prototipo del marito violento come lo si è visto spessissimo nel cinema impegnato negli ultimi anni, a Est come a Ovest) sono perdonabili in un quadro generale comunque vivido e originale. Di Azerbaigian, ora come ora, in Italia si sa e si parla ben poco: a maggior ragione merita un applauso un film dove, nell’ultima scena, l’esecuzione dell’inno sanguigno e pressoché sconosciuto del paese affacciato sul Mar Caspio sortisce paradossalmente l’effetto contrario a quello che dovrebbe suscitare. Perché non c’è una risposta alla domanda finale del piccolo Ruslan (“Mamma, abbiamo vinto?”): la guerra nel Nagorno-Karabakh in ultima analisi non ha né vincitori né vinti, così come quella tra Banu e Javid.