Insignita del Premio Luigi De Laurentiis per il suo lungometraggio d’esordio The Day I Lost My Shadow (2018), l’autrice siriana Soudade Kaadan aggiunge un nuovo capitolo al racconto della guerra che ha devastato il suo paese affidandosi a tropi estranei alla maggior parte dei suoi connazionali, per mezzo di un realismo magico che riesce a compiere un ragionamento più ampio sul travalicamento dei confini, la crisi dello spazio privato, il ribaltamento dei ruoli di genere. Presentato all’interno della neonata sottosezione Orizzonti Extra.
Durante la fase più dura dell’assedio di Damasco, una famiglia composta da padre – Samer al-Masri –, madre – Kinda Alloush – e figlia adolescente – l’esordiente assoluta Hala Zein – si trova a dover scegliere tra abbandonare la propria casa o restare e provare a sopravvivere. Abbandonata dai propri difensori, la città inizia a essere bombardata e anche il loro appartamento è colpito nel raid, che si lascia dietro un buco nel soffitto della stanza della giovane. Con esso, si apre per quest’ultima una prospettiva inedita che la porta a conoscere un nuovo amico, causando un terremoto nel sistema di valori del padre tradizionalista.
Contrariamente alla maggior parte dei giovani registi siriani, convertitisi al cinema documentario all’indomani dell’inizio del conflitto su impulso di un intento di cronaca degli orrori che si stavano consumando nel proprio paese, Kaadan – che nasce proprio come documentarista, ancor prima che le ombra della guerra si concretassero – ha preferito affidare al cinema di finzione il suo bisogno di raccontare il repentino cambiamento in corso nella società civile, dove la dura realtà delle privazioni e delle violenze imposta dalle ostilità avrebbe a suo parere accelerato il cambiamento anziché frenarlo. In particolare, nella città di Damasco – una delle più conservatrici del paese – , dove molti mariti erano stati costretti a improvvisarsi militari con le mogli lasciate a se stesse in case ridotte in macerie, si iniziò ad accettare – e anzi a reputare normale – che donne di tutte le età iniziassero a vivere da sole e condurre esistenze più autonome, mantenendo la volontà di emanciparsi dai propri parenti di sesso maschile anche quando questi fossero ancora in città e disposti a dar loro aiuto – o magari semplicemente a volerle controllare.
È proprio da questa acuta osservazione del quotidiano che Kaadan ha tratto l’idea per Nezouh, il cui titolo è una parola araba che significa «spostamento di anime, acqua e persone» e allude al cambiamento graduale ma decisivo di cui i personaggi del film sono in prima battuta vittime, ma di cui arrivano a essere in parte registi una volta compreso che la dinamicità della situazione non consente di fare affidamento su idee preconcette.
Affidandosi a simbolismi caratterizzati da una patente ironia – la figlia che tramite una fune raggiunge il suo spasimante dall’altra parte del buco nel soffitto, in cui si può leggere l’allontanamento dal nido materno verso l’altro sesso, su spinta di un impulso che porterà, a suo tempo, alla perdita della verginità – e a un ritratto velatamente canzonatorio degli uomini grandi e grossi che questa guerra dicono di combatterla – come il combattente in cerca di approvazione per l’abbattimento di un drone (non militare, ma uno di quelli che si usano per i video amatoriali) – creano un contrasto paradossale tra la situazione critica di cui i personaggi sono partecipi e le inspiegabili circostanze del caso, che non possono essere controllate ma soltanto accettate.
Senza nulla togliere in dignità artistica ai tanti documentari, di autori siriani e non, che hanno cercato di raccontare il conflitto pervenendo talvolta a esiti troppo omogenei tra loro – ci si riferisce a opere quali Still Recording (2018) di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub o Republic of Silence (2021) di Diana El Jeiroudi, senza contare l’ambiguità morale ed equidistanza della precedente fatica di Gianfranco Rosi Notturno (2020) –, pur nella sua semplicità e ingenuità dell’intreccio Nezouh riconferma l’autonomia di sguardo già dimostrata da Kaadan nel precedente dramma surreale, il che rappresenta senza dubbio un esempio – nonché una vera e propria iniezione di fiducia – per le nuove leve del cinema siriano, che dovranno ora riuscire a rielaborare il proprio trauma collettivo smarcandosi dalla cronaca – pura o dialettizzata che sia –, in favore di un cinema che sia davvero esplorazione di nuove frontiere.