Ethan Hawke racconta Blaze Foley, oscuro cantautore texano che è stato un riferimento per molti talenti come Merle Haggard e Willie Nelson; morto nel 1989 a 39 anni, non voleva essere una star, voleva diventare una leggenda della musica country.
Hawke, per il suo terzo lungometraggio di finzione, trae ispirazione dal romanzo Living in the Woods in a Tree scritto da Sybil Rosen (qui interpretata da Alia Shawkat), attrice e artista teatrale, compagna di vita del non facile Blaze (Ben Dickey, un orso attore e musicista). Un soggetto interessante che ha mosso il regista per il suo legame con Blaze e lo stato del Texas.
Attraverso tre piani temporali, registicamente giocati in flashback dentro flashback, il futuro (dopo la morte di Blaze), il presente e il passato (che dopo un accenno all’infanzia difficile del protagonista – cammina zoppo a seguito di una poliomelite, la trama si concentra sulla storia d’amore con Sybil e la sua travagliata carriera come musicista). Blaze ha un dono, lo si capisce dal primo accordo con la chitarra, dal tono della voce, da quello che compone. Le ballate, da lui scritte e cantate, accompagnano la narrazione della vita sballata, tra fumo e alcool: promessa precoce, successo, tradimento, autodistruzione, redenzione e morte.
C’è malinconia e solitudine nei suoi testi; e c’è anche un senso di tenerezza nostalgica, affettuosa nella regia di Hawke.
Insomma un elogio veritiero, un po’ indulgente nella sua gentilezza, ma apprezziamo la volontà di Ethan Hawke di aver voluto raccontare l’uomo, esplorando la sua vita.