Nel martedì dedicato ai “cineasti del presente”, trovano spazio, eccezionalmente e a discapito, per questa volta, del concorso ufficiale, ben tre opere prime. Hatzlila è l’ultima del terzetto e la più interessante fra di esse. Una pellicola capace di portare sullo schermo una visione più o meno inedita del conflitto israelo-palestinese, in quanto mostra gli effetti che questo ha su una famiglia. La famiglia in questione sono i Rozenkier, parenti stretti dello stesso regista che evidentemente ha preferito caricare maggiormente lo spirito autobiografico della sua opera usando attori non professionisti ma legati al fatto in sé, in quanto parte delle famiglia reale.
Sepolto il padre, i tre fratelli che vestono i panni dei loro genitori, probabilmente, si ritrovano dopo anni e tra loro si apre un conflitto potenzialmente mai rimarginabile nel momento in cui ritornano a galla le vecchie tensioni tra il fratello maggiore, partito per la guerra per primo ma congedato perché convintosi del fatto che rifiutarsi di combattere non significhi per forza codardia e quindi diventato un piantagrane all’interno dell’esercito, e il mediano, macho guerrafondaio, quando l’ultimo, il minore, riceve la chiamata alle armi.
Film compatto e altrettanto diretto, Hatzlila è la descrizione semplice di quello che accade nella testa dei ragazzi costretti a partecipare alla guerra e a vivere quel momento come un rito di passaggio. La bravura di Rokenkier sta tutta nel mostrare, invece, il totale scollamento della mente dei tre ragazzi dalle ragioni stesse della guerra, che guardano a essa invece come fosse un’esperienza liminale da affrontare individualmente.La guerra ti definisce, come dice Itai, il fratello di mezzo, come uno che sa arrangiarsi o un codardo: non c’è più la visione politica e ideologica dell’andare a combattere, è un fatto che viene dato per scontato, quindi partecipare o non partecipare è un atto dovuto e inevitabile e va considerato solo come le singole persone ci vengono a patti.
Il fratello minore, Avishai, è imprigionato all’interno di questa sorta di “gabbia ideologica”, al punto da avere più paura del parere della gente, di venire trattato come il primogenito, che dell’esperienza come soldato in sé. Itai (non) lo aiuta preparandolo sul piano tecnico e tattico alla guerra, spingendolo in una morsa soffocante dalla quale l’altro fratello cercherà invece di tirarlo fuori, di convincerlo che non c’è nulla di male nell’accettare di non essere dei macellai. La storia del trio non è altro, in fondo, che la cartina tornasole del disarmo culturale delle campagne israeliane, dove non c’è nessuna logica che spieghi quello che sta accadendo, e i giovani sono lasciati in balia dei propri timori fino al punto di individualizzare un fenomeno di portata globale.
Rozenkier racconta questa situazione drammatica, triste, facendo leva sui rancori di una famiglia disunita che fa da metonimia per tutte le altre, a cavallo tra litigi, momenti di distensione e le sequenze, tese e ben dirette, degli addestramenti, capaci di rivelare quella prossimità con la morte e il sudore che aleggia già prima della partenza per il fronte nonché tutta la rabbia repressa dei protagonisti. Lo sguardo del regista non è ovviamente distaccato, e ce lo comunica con la sua mdp nervosa, mai ferma, capace di girare intorno a personaggi offrendone un ritratto potente senza strafare, però. Quello che dà quel quid in più al film rimane però la direzione attoriale, che risente, come auspicabile, della comunione emotiva della vicenda. Finora l’opera prima più solida di Locarno 71.