Affermato mestierante nel genere supereroistico soprattutto, Matthew Vaughn nel 2014 concepisce un progetto più personale in cui riversa un poco di autorialità, quanto basta per farsi notare nel mondo sterminato delle commedie d’azione: si trattava di Kingsman: The secret service, tratto dall’omonima miniserie a fumetti scritta da Mark Millar, con cui il regista è ormai alla quarta collaborazione. A distanza di tre anni Vaughn riprende in mano la sua creatura e realizza un sequel, scritto a quattro mani con l’usuale aiuto-sceneggiatrice Jane Goldman, a partire da un soggetto originale questa volta. L’eponimo cerchio d’oro nient’altro è che il marchio portato dagli sgherri del cartello della droga di Poppy, una Julianne Moore nelle vesti di una potentissima narcotrafficante decisa a ottenere il riconoscimento che crede di meritare al punto da avvelenare i propri prodotti per mettere sotto scacco il mondo con la minaccia di centinaia di milioni di morti. A fermarla come nel primo film ci sono i nostri gentiluomini, aiutati dai cugini americani della Statesman.

Sequel abbastanza atteso, visto il buonissimo risultato al botteghino del film, questo Kingsman: The Golden circle segue le orme del predecessore senza apportare troppe variazioni alla fortunata formula. Stiamo sempre parlando di una riproposizione del classico film di spionaggio anni ’70 rivisitato totalmente in salsa pop, con molta azione e una valanga di citazioni che contrappone alla sgangherata squadra anglo-americana un villain macchiettistico con assurdi piani geo-politici. Il risultato però non è altrettanto brillante, anzi, presenta tanti piccoli difetti che rendono il film sì digeribile ma comunque dimenticabile. Portare i gentlemen in America poteva essere un’idea interessante, ma tanto espedienti quanto conseguenze si rivelano pressapochisti, traducendosi di fatto nella creazione di un solo nuovo personaggio, l’agente Whiskey, interpretato da un sempre più onnipresente Pedro Pascal, con a margine un paio di scene più o meno inutili per dare spazio a Jeff Bridges e Channing Tatum, tanto strombazzati quanto insignificanti. Allo stesso modo non funziona la gestione dei tempi, che collassa su momenti di pausa comica nella narrazione e riprende con foga a suon di montaggi musicali, spaesando lo spettatore, privato di una climax con cui seguire il film in un crescendo di tensione e divertimento.

E comunque durante il film si ride, e non con umorismo banale, bensì più sottile, molto d’immagine più che verboso. Quel che ne rovina l’efficacia è il montaggio volutamente straniante che finisce per diventare fazioso e inutilmente confusionario; ancora una volta la materia prima c’è, ma la mancanza giace nell’amministrazione della stessa, fattore causa di delusione proprio perché Vaughn ha sempre gestito questo genere di questioni con una certa esperienza. Esperienza che comunque si fa vedere in una regia che riesce a spettacolarizzare abbastanza bene nonostante le invasioni della CGI, seguendo coreografie complesse senza abusare del ralenti e facendoci apprezzare in tutta la loro arzigogolata astrusità gadget vari e tecniche di combattimento. Mischiando corpo a corpo, sparatorie e lazi laser, un cameo molto ninja di Elton John, un redivivo e guercio Colin Firth e continuità apprezzabili, il film si fa seguire senza troppi inciampi grossolani, pur senza raggiungere affatto quei picchi che tanto avevano lasciato il segno nel primo Kingsman (il tentativo di replicare il piano-sequenza nella chiesa è palese in più di un’occasione, in modo troppo editoriale, nel senso volgare del termine) mantenendo però una solida struttura circolare che premia il ritmo nel finale.In conclusione, Kingsman: The golden circle non è certo un film da poco, ma non può fare a meno di deludere progressivamente man mano che i minuti passano poiché non raggiunge mai quel livello che sembra promettere, quello della commedia d’azione di qualità seppur caciarona che diverte e al contempo fa vedere buon cinema: se incontrerà il favore del pubblico ne avremo senz’altro un terzo (il progetto seriale in sé non è malvagio) ma chi scrive dubita che possa svettare sulla massa di analoghi.

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