Ad aprire il concorso internazionale del 70esimo Locarno Ferstival è il lungometraggio d’esordio del regista islandese Hlynur Pálmason, che con Vinterbrødre confeziona un film enigmatico tra routine quotidiana ed esplosioni di violenza ambientato nella Danimarca più rurale.
Emil e Johan sono due fratelli che lavorano come minatori durante un inverno più rigido del solito, fino a quando il primo non resiste all’idea di vendere ai compagni un beverone da lui distillato con sostanze rubate da alcuni laboratori. Quando uno dei lavoratori inizierà a sentirsi male per peggiorare poco dopo, tra le due famiglie coinvolte sorgerà una violenta faida.
L’opera prima del giovane Pálmason è però molto più complessa di quanto non sembri. Se il cinema scandinavo moderno ha avuto un piccolo revival di recente, proponendoci film che erano più storie di frontiera, mondi a parte che la neve e i ghiacci separano dalla civiltà dove vige la legge del più forte, con questo Vinterbrødre succede tutt’altro perché viene abbandonata ogni forma di linearità narrativa. Il regista islandese va indietro e avanti nel tempo senza remore di nessun tipo, accede senza transizioni di sorta a un piano onirico generante visioni che riscrivono quanto avvenuto immediatamente prima e che vengono poi riscritte a loro volta pochi minuti dopo. Poi si passa alle rappresentazioni, non si capisce di che genere, se teatrali, se ideali o propriamente allegoriche, che si fondono con la realtà e in parte la elevano, in parte ne vengono epurate.
Si tratta dunque di un film confusionario, volontariamente confusionario, al punto da allontanare da sé l’empatia spettatoriale, evitando di fornire indizi al pubblico perché forse, nell’opinione del regista, non importa se sappiamo o meno se quell’antro oscuro dove lavorano Emil e Johan è una centrale elettrica, una miniera o altro ancora, come non gli interessa che si ricostruiscano i tempi diegetici in cui si svolge la narrazione. Quello che l’opera sembra inseguire è l’ambizione di disegnare un ritratto asettico, preciso di una psicologia tormentata, un futuro mostro forse. Emil sembra un tontolone dalle prime inquadrature, un gigante buono rispetto al fratello che deve stargli dietro, sul modello della relazioni di Uomini e topi. Ma più andiamo avanti (o indietro) nella narrazione e più ci accorgiamo dell’instabilità di Emil, che non vende veleno perché mosso dal guadagno, ma costretto da un impulso tanto irrefrenabile quanto indefinibile, verso la violenza, verso il tabù sociale che non riesce ad accettare perché privo, geneticamente o culturalmente, dei mezzi per farlo.
In conclusione, Vinterbrødre , per dirla in modo molto semplice, rispetto al film, segue le orme de Il nastro bianco di hanekiana memoria nello stesso modo in cui lo aveva fatto Childhood of a leader, ovverosia in maniera troppo psicologistica, però ha una gran tecnica e decostruzione dietro che permette al film di essere piacevole pur nella sua palese presunzione e nell’ovvio spaesamento che crea.