La prima giornata di questa 70esima edizione del Festival di Locarno ha visto tra le sue proiezioni più interessanti Sashidi deda, primo lungometraggio, dopo due corti, dell’emergente Ana Urushadze.
Manana, frustrata casalinga georgiana di mezza età si trova dinanzi a un aut-aut quando deve scegliere tra la sua famiglia e le sue ambizioni come scrittrice. Incoraggiata dall’amico editore e osteggiata dal marito e dai figli, tenterà di portare a termine il suo lavoro in maniera poco ortodossa portando alla luce un collegamento morboso tra l’opera e la sua stessa vita.
Sashidi deda è un’opera prima decisamente interessante, molto ambiziosa – forse troppo. Si occupa di una donna costretta a seguire gli imperativi che la sottocultura georgiana impone, pur sognando un futuro da artista. Il libro è di fatto una raccolta in stile flusso di coscienza delle sue frustrazioni e della sua prigionia consapevole. In un turbinio di sesso, fango e peccati capitali Manana si racconta nascondendosi dietro a una dichiarazione di non-coincidenza dell’autrice con la protagonista, salvo poi non riuscire più a celarsi dietro questa scusante scoprendo i suoi veri pensieri verso la famiglia, l’editore, il padre.
Se l’inizio (i primi 30’ circa) si rifà lo schema abusato della lentezza esasperata per creare a tutti i costi un’atmosfera, il film certamente va migliorando con l’avanzare dei minuti e termina in un crescendo. Avvolgendo un intreccio relativamente semplice nel gioco della corrispondenza tra reale e letterario, tra vita personale e sfogo artistico, Sashidi deda certo si avviluppa su se stesso e si rende affascinante, e gestendo i tempi con ritmo sostenuto non ha certo problemi a intrattenere lo spettatore, ma si rivela in parte deludente quando è costretto a manifestare la sua vera natura di giocoso bluff. E nello scoprire gli altarini regala qualche chicca dolceamara, come il monologo finale del padre, che firma una scena conclusiva perfettamente calibrata nel crescendo di cui sopra ma che al contempo scopre una certa mediocrità nella costruzione del personaggio protagonista, evidenziandone le ipocrisie e le mancanze nello schema di pensiero. L’opera va perfezionandosi e denudandosi allo stesso tempo e mitiga le (a dire il vero) non molte cadute di stile, con il suo proprio rivelarsi: tiene benissimo il ritmo essenzialmente grazie alla sua potenza evocativa. Grazie al personaggio di Manana e dialoghi scritti con sapienza l’opera riesce a risultare immaginifica, creando figure oniriche di una madre che trova la sua rivincita sociale divenendo ipoteticamente pipistrello, se non vampiro. Senza lesinare sui particolari ci viene propugnata l’immagine di una figura materna sfruttata, dissanguata, uccisa giorno dopo giorno in uno stillicidio che si fa prassi, che si ripropone che dissanguatrice, nutrendosi di placenta ed embrioni durante la caccia notturna.
Ora, di fatto Sashidi deda scoprendosi di rivela come costitutivamente meno di quanto non volesse far pensare, ma rimane comunque raffinato, nonostante i temi trattati, al punto che chi scrive chi scrive oserebbe dire di facile visione, visti i presupposti. La regia semplice, una tranquilla composizione di classicheggianti piani-sequenza a camera fissa che inneggiano alla staticità e alla claustrofobia della situazione generale che certo non brillano per originalità ma funzionano alla perfezione; e i giochi di specchi per allargare l’orizzonte del visibile vanno a inscriversi nello stesso sistema. L’opera prima di Ana Urushadze è pregevole quanto ingannevole, ma resta comunque un film che vale la pena vedere.