Primo dei due film baschi alla Mostra del Cinema di Venezia 2019, Madre è una sorta di sequel dell’omonimo cortometraggio di Sorogoyene e Isabel Peña, una continuazione in chiave drammatica di quel corto che tra 2017 e 2018 impressionò le giurie di tutti i festival girati venendo premiato più di settanta volte in totale (più la candidatura all’Oscar). È innegabile, a questo punto, che sorga qualche aspettativa, visti i prodromi.
Marta Nieto ritorna nei panni di Elena a distanza di un paio di anni, dovendo però confrontarsi con un personaggio che ne ha visti trascorrere dieci. Non si tratta più della madre affranta il cui figlio di sei anni è appena scomparso, ma di una disillusa donna che cerca di rimuovere il periodo della sua vita in cui ha avuto una famiglia e tira a campare come può con un ristorante di pesce nelle Landes. I tentativi di mettersi il passato alle spalle falliscono quando incontra un adolescente francese i cui tratti somatici non possono far altro che ricordarle il viso del suo bambino, così com’era un decennio prima.
Jean, questo il nome del ragazzo, non è il figlio di Elena. Sappiamo noi che non è lui, la madre stessa sa che non si tratta del piccolo Ivàn eppure Sorogoyen, che si identifica come un amante del thriller, riesce ugualmente a creare suspense con lo stesso espediente del corto: rimuovere il bambino serviva a generare ansia allora e in questo momento, privare la narrazione di flashback significativi ed evitare di mostrare il viso del bimbo lasciano sempre uno spiraglio aperto, una possibilità che sappiamo essere un lieto fine inverosimile; eppure c’è, e così tiene viva l’attenzione, alimenta i sospetti di chi guarda trascinandolo dentro un dubbio. Anche se razionalmente è data una certezza, il fatto di aprire a un “ma”, per quanto blando e arzigogolato, evita di abbassare troppo il ritmo e alleggerisce la visione.
Questa è una strategia che viene utilizzata per tutta la durata dell’opera e funziona più che bene nel macro, fallendo però nel micro quando il nostro prova ad accelerare. La costruzione della tensione internamente alla sequenze da parte di Sorogoyen è elementare, la sua gestione dei tempi sembra scandita da un metronomo, probabile eredità del passato da regista di soap – trecento episodi all’attivo, chiaro che dopo un po’ il vizio si acquisisce. Il film ha invece beneficiato del passaggio al piano-sequenza come indirizzo stilistico predominante, permettendo al regista di concentrarsi più sui personaggi, sul fluire della vicenda nel modo più verosimile possibile; verosimiglianza poi a lungo ricercata, perché Madre è piena di piccoli equivoci, mini-episodi di vita vissuta, banalità quotidiane che vengono valorizzati dall’interpretazione di un duo affiatato.
La chiave formale è ereditata dal cortometraggio, ma Sorogoyen e Peña hanno voluto anche andare oltre, provare a sporcare la narrazione mischiando le carte, soprattutto con l’idea di una costruzione ad anello sul fronte estetico: il film inizia e si conclude con un long shot di più di dieci minuti che avrebbe la funzione di restituire allo spettatore la serenità della vita di Elena, quella impura e forzata prima, quella autentica poi. Qualche problematica sorge però nei novanta minuti che stanno in mezzo quando il tentativo di abbinare una tecnica specifica di montaggio allo stato emotivo della protagonista per rispecchiarlo sullo schermo di traduce in un eccesso manieristico nemmeno troppo riuscito dietro l’altro. Bella l’idea ma rivedibile l’esecuzione.
Questa corrispondenza emotivo-visiva viene ricercata anche con la luce: quella di Elena è una storia di rinascita che viene spesso evocata o con un’ulteriore metafora della maternità o con l’uscita da un lungo tunnel, più volte richiamato esplicitamente, e di conseguenza la luce naturale diventa sempre più presente sulla scena durante il corso dei minuti, risultando in effetti alla lunga un po’ smielato, sono pochi i registi (Kawase su tutti) che possono permettersi questo genere di naivität.
Madre cresce con il passare dei minuti, riesce a combinare bene gli elementi aggiuntivi (come la storia d’amore con Joseba) senza nemmeno spiccare troppo per elaborazione dei personaggi o della loro filosofia di vita, che è invero piuttosto naïf. Elena non mostra certo una profondità dirompente, ma l’abbinare al suo rendez vous sui generis un percorso interiore sul binario di un presunto stress patologico – con cui Nieto riesce a rendere bene il senso di spaesamento di Elena che vorrebbe far capire che ciò che fa non è folle, anzi è normalissimo, pur sapendo che si tratta di una fantasia e consapevole del sottile spiraglio di cui sopra – è un colpo di coda fine e delicato che accresce lo spessore dell’opera.
Madre è in poche parole quello che, per struttura espositiva, genere, dinamiche dei personaggi, viene sempre definito “un film semplice”, ma è uno dei migliori “film semplici” negli ultimi anni di Mostra veneziana.
Non male per un regista di telenovelas, bisogna ammetterlo.