Wordstar(s) Il tormento creativo dell’artista

L’allestimento del Teatro Stabile del Veneto, andato in scena, in bilico fra ricerca e sperimentazione, nel l’autunno del 2011, è stato ripreso e replicato in diversi teatri veneti

“WordStar, il più diffuso programma di scrittura prima dell’avvento di Microsoft Word. Niente più stelle, solo parole. Allo stesso modo, come un programma di scrittura ormai obsoleto, si spegne un vecchio scrittore, Samuel – direttamente ispirato alla figura e alla biografia di Samuel Beckett – , incalzato dal ricordo della moglie e dell’amante, entrambe inaspettatamente morte prima di lui, e tormentato dalla presenza del direttore di una rivista di studi a lui dedicata, che cerca di carpirgli un’ultima ‘illuminante’ dichiarazione”. Vitaliano Trevisan

La letteratura mette di fronte al fallimento?
Le esistenze artistiche sono sterili umanamente, ma per fortuna ogni stella è una parola, che unita ad un’altra con lo stesso filo aiuta a non perdersi. Le lettere sono stelle cadenti nella notte di Beckett trasfigurata in Wordstar(s), il testo di Vitaliano Trevisan allestito da Giuseppe Marini per il Teatro Stabile del Veneto. WordStar è un diffuso programma di videoscrittura che precede l’avvento di Microsoft Word, e un tributo all’essenza della scrittura di Beckett nei suoi ultimi giorni prefigurati, all’assenza di un soggetto negato che ragiona per esclusione. Il gigante irlandese ha espresso la sofferenza di un uomo immerso in paesaggi deserti, che sopravvive nell’inezia e nella paralisi, esprimendo le frustrazioni in ragionamenti che impediscono l’itinerario psicologico. Il testo di Trevisan fa del linguaggio usato la propria narrazione. Wordstar(s) è una partitura priva di punteggiatura e con gli ‘a capo’ delle strutture versali. Il sottotitolo della pièce, “ritratto di scrittore come uomo vecchio”, ha evocato nel regista Marini il titolo di un quadro di Francis Bacon. L’arte del pittore è ripresa nella scenografia, nella luce e nel colore, che riesumano le ombre inquietanti, deformi e liquefatte dei suoi quadri, in quella spietata deflagrazione dell’equilibrio della condizione umana che faceva carne da macello delle proporzioni dei ritratti di Velàsquez.

Terzetto spezzato

Il primo atto si apre in un interno, una scena arredata con un letto e una scrivania, un armadio e una poltrona, accanto a cui giace una bombola di ossigeno, su un tappeto di moquette rossa dove si agita Sam, farfugliando a proposito di un lavoro teatrale rappresentato erroneamente in Olanda. Sfinito dall’idea di vestirsi, viene colto da un acciacco alla schiena, raccoglie la polvere: queste le azioni sfatate nella convinzione che la scrittura non sia democratica, pur essendo l’unica presenza che rende l’essere umano un’accumulazione di presupposti. Al flusso monologante fanno da contrappunto le due figure femminili di Suzanne e Billie. La moglie, rinchiusa nell’armadio mentre cuce, e l’amante, di cui sfavilla come una fantasmagoria soltanto la testa impalata sull’asse di un paralume rosso, conversano post mortem. La prima descrive il suo incontro con lo scrittore, un’ esperienza predestinata a divenire il sogno di una cella nel battere a macchina i suoi testi e combattere gli editori, mentre l’amante, un’attricetta da quattro soldi, sembra aver lasciato tutto all’immaginazione. Sam affossa in una valigia la testa, mima il gesto di scrivere nell’aria rinchiudendone il contenuto nel pugno serrato, e improntandosi dei suoi stessi frammenti, afferra il libro di Dante, “portando con sé l’inferno”.

All’insegna del grottesco e di un “ingegno barocco” la rivisitazione di Beckett

Nel secondo atto la moglie è incuneata dentro a un frigorifero, mentre la testa luminescente dell’amante si erge al di sopra della spalliera del letto. Rammentano i ricordi di un uomo egocentrico, che ulula come un pellerossa tra le fronde dell’albero piantato sul fondale. Entra con fare furtivo il direttore di una rivista di studi a lui dedicata, che vagheggia le sue fortune editoriali, mentre il protagonista si forgia della collezione del suo unico amore di parole giuste, aprendo le braccia come Gesù Cristo. Aureolato da una luce blu di Prussia, si stende sul letto: è la notte annunciata dai costumi elisabettiani colore indaco di due donne che fanno il loro principesco ingresso passeggiando con un libro tra le mani. Una voce fuori scena discerne il tempo vissuto dal vivere, scandito dal lento discendere delle lettere luminose dell’alfabeto sul fondale, che come neve e stelle compongono sintagmi. Il persuasivo ritratto che Ugo Pagliai rende dell’autore è venato di malinconia, e convince perché trasmette il tormento creativo dell’artista in un coerente flusso organico, uno sguardo penetrante, un’architettura visiva immaginata attraverso le risonanze interiori del linguaggio di Trevisan, reso grottesco dalle pose teatrali del grande attore. La moglie, interpretata da Paola Gassmann come un fossile inglobato nella roccia, scansa gli equivoci di un eccessivo pietismo derivato dai personaggi beckettiani, mentre il segno stralunato di Paola Di Meglio, l’amante che trasforma in esuberanti didascalie le enigmatiche glossolalie del teatro dell’assurdo, marca la regia di anticonformismo. In questa autoriflessiva meditazione sulla scrittura, Trevisan traduce con ingegno barocco la personalità di Beckett, assolvendolo dalla funzione di uno specchio in cui vedere la vera immagine della propria anima. Scrivere è progettare.

con
_ Ugo Pagliai
_ Paola di Meglio, Alessandro Albertin
e con
_ Paola Gassman
scene Antonio Panzuto
_ costumi Gianluca Falaschi
_ musiche Marco Podda
_ luci Pasquale Mari
_ regia Giuseppe Marini