“CONFESSIONI DI UN OPPIOMANE” di Thomas de Quincey

Intime parole

“Eccoti qua, cortese lettore, la storia di un notevole periodo della mia vita: e confido che sarà per te, come è stata per me, non solo una storia interessante, ma in qualche modo anche utile e istruttiva. L’ho scritta con questa speranza, e questa sia la mia scusa se son venuto meno a quel delicato, dignitoso riserbo che per lo più ci trattiene dall’esporre in pubblico i nostri errori e le nostre debolezze”.

Con queste sincere e dirette parole inizia il racconto autobiografico di Thomas De Quincey, noto e notabile scrittore e giornalista inglese del XIX secolo che narra, in questo romanzo breve, la scoperta dell’oppio, dapprima accolto come terzo occhio ispiratore per la sua opera, poi riconosciuto come demone invadente che risucchia, a colui che ne abbraccia la compagnia, dapprima la vita, poi gli affetti e per finire tutta l’anima.
Quest’opera precede e non di poco i racconti visionari dei decadenti francesi (De Quincey fu molto ammirato e apprezzato dallo stesso Baudelaire) e si fa madre precorritrice di tutta quella narrativa che esplose fragorosamente dall’interno della società benpensante statunitense a partire dalla metà del secolo scorso e che va sotto il nome di Letteratura Beat, tra cui su tutte vale la pena di citare il noto Il pasto nudo di Allen Ginsberg.
Non di meno possiamo trovare echi di cronache distorte e vite dedite all’uso di sostanze stupefacenti nella seconda ondata autoriale che coinvolse, verso la metà degli anni’90, anche l’Italia: stiamo parlando di quel gruppo di scrittori esordienti che vennero appellati come scrittori cannibali e che negli Stati Uniti trovarono realizzazione massima in autori come Hunter S. Thompson (Paura e delirio a Las Vegas) e Bret Easton Ellis (American Psycho è la sua opera più celebre).

In comune un io narrante quasi sempre distorto e alla deriva, la voglia più o meno recondita e inespressa di riuscire a sottrarsi all’autodistruzione verso cui i protagonisti di queste vicende si sono avviati. Ovviamene la sintassi, l’uso del linguaggio e ciò che è possibile o meno mostrare brutalmente attraverso la parola scritta sono limiti a cui tutte queste opere vanno sottoposte e che ci aiutano a collocarle in una successione temporale che va di pari passo con lo scioglimento di tabù sessuali e, soprattutto, culturali.
La scrittura di De Quincey è asciutta, serafica seppur, a suo modo, cruda: se vi sono tentannementi non sono nella sintassi, ma bensì nell’animo dell’autore, che riscopre, descrivendole sulla pagina, le proprie debolezze di fronte al vizio ed al piacere procuratogli dall’oppio, compagno che diviene di giorno in giorno sempre più una necessità, annientando la volontà del protagonista sino a precipitarlo nel baratro dell’ indecenza morale.

Proprio a questo stava puntando De Quincey riportandoci le sue esperienze: riuscire a far vivere al lettore l’excursus vitae del proprio io narrante, in modo che egli vi ci possa immedesimare quasi fino al punto di comprendere le ragioni della discesa nell’oblio, e le difficoltà incontrate nel tentativo di sottrarsene.
De Quincey ci regala, di quando in quando, delle piccole pause in cui ci viene mostrata parte della società della Londra del XIX secolo, delle abitudini quotidiane, dello stile di vita in voga in quegli anni, numerose sono anche le informazioni circa il suo passato, al sua infanzia errabonda per l’Europa, che spiega le numerose citazioni in latino, italiano e francese disseminate dal colto autore durante il suo racconto.

In definitiva un testo da riscoprire, che fa riflettere, soprattutto sulle rivoluzioni piccole e grandi di costume e di morale degli ultimi sessant’anni, che, alla luce di opere come questa, ci appaiono un po’ meno innovative e rivoluzionarie.

Thomas De Quincey, Confessioni di un oppiomane, Garzanti, 2007, € 9,00.