INCONTRO CON STEFANO CONSIGLIO, regista del documentario “Appunti per un film sulla lotta di Melfi”, presentato nella sezione DOC FUORI CONCORSO AL TORINO FILM FESTIVAL 2004

Ci vuoi parlare di come si è sviluppata la storia?
Mi scuso innanzitutto della mia presenza eccessiva all’interno del documentario, ma non potevo davvero farne a meno. Ad un certo punto avevo anche pensato di farmi recitare da un attore, però sentivo proprio che con una recitazione si sarebbe creato qualcosa di falso e invece sentivo la necessità di spiegare quello che io avvertivo stando là.
Il lavoro infatti è nato da una cosa mia: conoscevo le situazioni degli operai di Melfi attraverso l’operaio Franco Di Donato che era stato al centro della storia del mio film precedente, L’uomo flessibile. Tutti mi domandavano come lui e tanti altri (sono 10000 gli operai di Melfi) riuscissero a sostenere quello stile di vita. Io non sapevo rispondere ma fatto stà che lo sostenevano. E invece qualche mese dopo Melfi scoppia. Io all’inizio non riuscivo a crederci. Sono stato indeciso vari giorni sul che fare, se partire o meno, e poi, dopo che la notizie di Melfi occupavano ormai le prime pagine dei giornali e dopo la carica della polizia, ho capito che stava succedendo qualcosa. E quello che avevo capito era una cosa molto semplice: che non si trattava di una vertenza sindacale, per quanto molto importante, ma lì era la prima volta che succedeva quello che definisce Max Weber quando dice che una classe sociale diventa tale quando riconosce il comune destino. S’intuiva che loro dopo 10 anni avevano conosciuto questo comune destino, una specie di energia. Sono partito e andato lì per guardare quello che stava succedendo, per guardare le loro facce e sentire i loro racconti. Poi si è svolta quell’assemblea, al centro del documentario, che è stata veramente un punto nodale perché i blocchi che avevano fatto, era diventati una barriere protettiva; era come stare in un utero, al caldo, protetti, e uscire significava rischiare. Questa cosa mi ha colpito molto. Poi alla fine della nottata gli operai hanno capito che ce l’avevano fatta. Certo la vertenza si è chiusa 15 giorni dopo ed infatti non la racconto se non sui titoli di coda. Ma già alla fine della nottata e alla mattina successiva si era capito che gli operai di Melfi si riconoscevano in un comune destino e quindi si erano riconosciuti come classe sociale, come classe operaia.

Hai lavorato da solo?
Il film è autoprodotto. Io non sono capace di girare da solo ed in un certo senso neppure mi piace. Mi piace molto sollevare le energie degli altri, convogliare le energie degli altri su un progetto. Quindi ho lavorato con una piccola troupe.

Secondo te in quest’epoca l’identità del movimento operaio è svanita ed è stata cancellata dalla globalizazzione?
Io penso che in parte si sia affievolita. In parte semplicemente non se ne parla, e siccome viviamo nel mondo dei media, quello di cui non si parla non esiste. E invece poi scopriamo che queste cose ritornano alla ribalta ed esistono. Una delle cose più belle che mi hanno detto gli spettatori è stata: “ma che belle quelle facce, c’eravamo tutti proprio tutti anche se non eravamo là”.
La mia sensazione è che la protesta dei lavoratori di Melfi contro condizioni di vita e di lavoro così dure e così ingiuste abbia riscosso una certa simpatia nell’opinione pubblica, oggi più di quanto non sarebbe successo ieri, perché in tempi di crisi sociale e economica come quelli che stiamo vivendo, il corpo sociale si identica in maniera emotivamente più forte con chi si ribella questo stato di cose.