“Ran shan ren hai (People Mountain People Sea)” di Cai Shangjun

Il minatore in nero

Venezia 68. Concorso
Lao Tie ha tutta l’aria del cinese medio. Instancabile lavoratore, ossessivo fumatore, fa quello che deve fare senza chiedere o lamentarsi. Abita nel cuore della provincia rurale cinese dopo un’esperienza di vita metropolitana che l’ha lasciato con qualche soldo e un figlio in più. Il suo ostinato silenzio è in qualche modo sintomo di rassegnazione e malinconia, ma non di debolezza o remissività.

Quando il fratello minore viene brutalmente assassinato per essere derubato della motocicletta, Lao Tie non ha il minimo dubbio su quale sia l’atteggiamento da adottare: vendetta, tremenda vendetta. L’espressione è sempre quella, fumosa e apparentemente indolente, ma la determinazione non manca. Intraprende un lungo viaggio che lo riporta, inutilmente, in città. Da qui viene dirottato in una miniera illegale a nord del suo villaggio. La resa dei conti, forse, si avvicina.

Non stupisce che il film a sorpresa della Mostra del Cinema di Venezia numero 68 abbia gli occhi a mandorla (l’unica eccezione durante il lungo regno Muller è stata il My son, my son, what have ye done di Herzog). Stupisce piuttosto, ed è una sensazione che lascia sempre in un piacevole stato di torpore e serendipity, che il cinema abbia ancora la forza di far emergere sguardi altri e così potenti. Il film di Cai, regista semiesordiente al suo secondo lungometraggio, lungi dall’essere perfetto o (che brutta categorizzazione) commerciabile/vendibile, è in grado di prendere in mano uno dei temi in assoluto più inflazionati della Storia del Cinema, la vendetta appunto, e creare qualcosa di nuovo e sorprendente. Non siamo, purtroppo, dalle parti di Old Boy, che per molti versi rimane un’opera inarrivabile. Ma l’estremità e la forza del punto di vista del regista cinese colpiscono duro e dove serve.

People Mountain Peolpe Sea è costruito attorno a tempi volutamente iperdilatati che agiscono su spazi che si fanno sempre più serrati (dall’ampiezza del paesaggio montano, all’accumulo della caotica struttura metropolitana cinese fino alla chiusura opprimente della miniera illegale), personaggi che si fanno sempre più oscuri (villaggio rurale dove tutti conoscono tutti/spersonalizzazione urbana/(volontaria?) perdita dell’identità in un ostile luogo di lavoro clandestino) e vicende che perdono via via di movente. La chiave del film sta nell’ultima, ostica parte in cui Lao Tie decide di lavorare nella miniera per scovare l’assassino del fratello. Qui tutto perde di significato. Le persone (come detto) perdono la propria identità, inglobate da un non luogo ignoto alla società e, affogate nella fuliggine, si rendono anche fisiognomicamente irriconoscibili. In un moto circolare di toccante consapevolezza cinematografica, Cai riprende la splendida scena iniziale dell’assassinio e ci ricorda, in una sequenza indigeribile e indimenticabile, quanto l’uomo possa scendere in basso. E non importa che sia bianco (la terra del villaggio) o nero (il carbone della miniera): per molte persone la speranza non esiste.

Titolo originale: Ren Shan Ren Hai
Nazione: Hong Kong, Cina
Anno: 2011
Genere: Drammatico
Durata: 90′
Regia: Shangjun Cai
Cast: Chen Jianbin, Tao Hong, Wu Xiubo, Li Hucheng, Zhang Xin, Wang Xu, Bao Zhenjiang, Hou Xiang, Tian Xinyu
Venezia 2011