Torino 30. Torino XXX
Un uomo si risveglia, fa una doccia, esce di casa, incontra una donna. I due si innamorano, si baciano, cenano assieme, fanno l’amore. Seguono matrimonio, luna di miele, routine, malintesi, litigi, separazioni e due possibili finali (uno tragico e uno lieto).
Quello che Final cut racconta è la più banale delle storie d’amore. Lo fa però in modo sorprendente e suggestivo. Per realizzarla non è infatti stata girata alcuna scena. Tutto è stato fatto al tavolo di montaggio, utilizzando brevi, brevissimi (talvolta quasi subliminali) spezzoni tratti da circa 500 titoli della storia del cinema – successi planetari e oscuri film dell’Est Europa, capolavori riconosciuti e dozzinali cartoons, tremolanti pellicole delle origini ed exploit delle più moderne tecnologie (le prime immagini del film arrivano – e la scelta assume un evidente valore “teorico” – da Avatar).
Quando, anni fa, vidi Il mistero del cadavere scomparso (1982, di Carl Reiner) in cui Steve Martin dialogava con spezzoni di noir degli anni ’40-50, trovai il lavoro di montaggio notevole. A confronto con Final cut appare però un gioco da ragazzi. Dando continuità a materiali così eterogenei, Pálfi (di cui avevamo già ammirato le qualità in Hukkle e Taxidermia: invenzioni visive, senso della “sfida”, sottigliezza teorica) compie qui un lavoro straordinario, di proporzioni gigantesche.
Non è solo una grossa “operazione nostalgia”, stracolma fino alla bulimia (diverse centinaia di film). C’è anche quello, certo, ma non solo: Final cut è qualcosa di più sottile e intrigante. Pálfi coglie somiglianze di espressioni e di gesti non solo laddove questa somiglianza è ricercata e voluta (tra Jessica Rabbit e Gilda, per dire), ma anche laddove meno ce la si aspetterebbe. Poi crea dialoghi di sguardi imprevedibili e irresistibili (quello tra il Depardieu di Novecento, la Sharon Stone di Basic Instinct e l’Anthony Perkins di Psyco vale da solo il biglietto) ed è bravissimo nel ricontestualizzare e dare un nuovo senso alle inquadrature – per esempio, quando l’amore va in frantumi le espressioni di dolore arrivano anche da film dove il dolore aveva altra origine. E, così facendo, ci fa anche percepire che ci sono immagini che oppongono una resistenza a questa ricontestualizzazione (un’immagine non è solo un’immagine, ma è anche la sua storia: la doccia di Psyco, anche senza Janeth Leigh, il coltello e il sangue, non potrà mai essere solo una doccia: per cui ci disorienta trovarla, innocente, all’interno del montaggio sul risveglio mattutino).
Alla fine, partecipando a questa sorta di enorme esperimento sull’effetto Kulešov, ci rendiamo conto che siamo noi a dare il senso ultimo alle immagini che vediamo, ad attribuire loro la contestualizzazione definitiva, ci rendiamo conto che, quando andiamo al cinema, non facciamo altro che guardare noi stessi, quello che siamo stati, quello che avremmo potuto essere, quello che vorremmo essere e quello che forse saremo, in un gioco dei “possibili” affascinante e indispensabile.
Sarebbe davvero un peccato se questo film – leggibile a più livelli, dal puro divertimento alla riflessione teorica – rimanesse confinato ai festival: siamo convinti che, adeguatamente distribuito (nelle sale giuste), potrebbe trovare un suo pubblico e diventare un piccolo caso.
FINAL CUT – HÖLGYEM ÉS URAIM (FINAL CUT – LADIES AND GENTLEMEN)
Regia: Gyorgy Pálfi
Nazione: Ungheria
Anno: 2012
Durata: 85′