Diversi personaggi si alternano ed incrociano in luoghi a metà fra un deserto post-atomico e il cantiere di costruzione di una civiltà in faticosa rinascita. Su tutti aleggia la stessa nebbia e l’incertezza delle nuvole, che potrebbero diradarsi, ma anche preludere a un gran temporale.
L’epigrafe al film è tratta da Cézanne: “La linea e il modellato non esistono affatto. Il disegno è un rapporto di contrasti o più semplicemente il rapporto di due tonalità, il bianco e il nero”, ed essa suggerisce una lettura appunto “contrastiva” (dialettica diremmo) nella quale valori umani, vicende dei protagonisti, riflessioni artistiche e fatti storici vanno messi in reciproci rapporti che ne smussino l’assolutezza e la categorici.
Nel primo episodio siamo nel 2017, a cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, una voce ci introduce nelle vicende di alcuni “uomini superflui”, che (come da tradizione letteraria ottocentesca russa) risultano comunque fondamentali e necessari affinché la Storia proceda. Questi uomini superflui intessono le proprie avventure quotidiane attorno a un gigantesco, gelido e desolato cantiere, e il loro flebile trait d’union sarà appunto la “casa in costruzione”, attorno alla quale Gastarbeiter, architetti e progettisti, ma anche semplici vittime delle nuove condizioni sociali, incroceranno i loro vagabondaggi, ma soprattutto le loro riflessioni su passato e futuro. I presagi e le aspettative di nuovi sommovimenti si possono sentire nell’aria elettrica di un pastoso inverno russo, e German imbastisce qui un dialogo a distanza fra i vari personaggi, legandone i destini in modo più o meno labile, utilizzando questo misterioso luogo di costruzione di una Nuova Casa come denominatore comune.
Amo molto il cinema di Aleksej German jr, ma questo suo quarto lungometraggio mette a dura prova anche gli affetti più saldi e radicati negli anni. Non riesco infatti a cogliervi una capacità di riunire sotto un’unica struttura (sotto un unico tetto, potremmo dire, sfruttando le velleità edilizie della trama) le sette storie che compongono il film: “Una lingua straniera”; “Gli eredi”, “I lunghi sogni di un giurista…”, “Area edificabile”, “L’ostaggio”, “L’architetto”, “La padrona”, e temo che il buon Aleksej si stia arenando in un processo involutivo paragonabile a quello di un altro grande del cinema contemporaneo, Malick.
Se l’autore de La sottile linea rossa si è impelagato in esercizi un po’ afasici di decostruzione e incantamento visivo (non che io non mi faccia incantare con piacere, per carità…), il russo sembra ripetere un po’ stancamente i procedimenti retorico-narrativo-stilistici (“prijomy”, direbbero i formalisti) che ce lo hanno fatto amare: un uso ampio e perlustrativo del piano sequenza, l’utilizzo funzionale della messa a fuoco che dirige lo sguardo dello spettatore sui diversi piani del profilmico, il vagabondaggio filosofico di personaggi che ogni tanto guardano in macchina come per ammiccare ad uno sfondamento quasi casuale della quarta parete. Aggiungiamoci una spruzzata di riferimenti culturologici risonanti e la ricetta è pronta.
Ci vorrebbe tutt’altro spazio per analizzare nel dettaglio appunto la congerie (non troppo organizzata) dei riferimenti che German distribuisce “a spruzzo” lungo il suo film: si va dalla riflessione (diremmo più che altro: vaghi suggerimenti) sul ruolo dell’arte, sulla sua sacralità e sulle sue capacità di fissare nella materia i simboli del tempo e del potere (si vedano i resti delle statue real-socialiste); alla responsabilità individuale di fronte ai grandi cambiamenti storici (il personaggio interpretato da Merab Ninidze è ora un intellettuale deluso, ma nel 1991 ha rischiato la vita per difendere la Casa Bianca moscovita dal putsch conservatore). Per finire su considerazioni un po’ generaliste sulle montagne russe storiche (è proprio il caso di dirlo) del XX secolo a Mosca e dintorni: input visuali o verbali distribuiti lungo tutto il film sul ruolo di Stalin, Lenin e di altri statisti russi e sovietici si fondono (non perfettamente) con alcuni spunti sulla Russia post-sovietica, immersa in nuovi vizi (le nuove mafie, la tossicodipendenza, lo sfruttamento degli immigrati) che sembrano appunto promettere nuove docce fredde, nuovi acquazzoni ben poco rassicuranti, come suggerito dal titolo.
Ancor meno eloquente forse per i non russi o non-russisti è poi il riferimento ad alcuni personaggi e al ruolo da essi svolto nell’evoluzione del pensiero artistico e politico: oltre a Kazimir Malevič si cita a più riprese il modernista Petrov-Vodkin, anche per il suo quadro “Il bagno del cavallo rosso”, da alcuni interpretato come simbolo mitico (se non addirittura profetico) dei destini del paese, ma anche Kamenev, Sosnovskij e altri personaggi rimasti vittime delle purghe staliniane.
Il finale è giocato sulla falsariga di una delle più belle canzoni del gruppo rock russo DDT, “Questo è tutto quel che rimarrà dopo di me”, ovvero una riflessione dolce-amara (ma non pessimista) su quanto si è compiuto fino al dato momento, un dialogo con se stessi e con le persone amate che vale anche come esame di coscienza e bilancio esistenziale.
Forse, come da epigrafe, tutto questo (pur affascinante) balletto di focalizzazioni e long-shot serviva a sottolineare la relatività delle valutazioni morali, il rapporto intenso che sussiste fra bene e male, fra chiari e scuri storici, fra luci e ombre dell’agire umano? Un po’ generico come portato di più di due ore di film…O forse, citando uno dei personaggi, il “messaggio” è che bisognerebbe semplicemente conservare quanto abbiamo già edificato (in tutti i sensi, dal museale al morale…) e non farsi travolgere dalle manie di nuove edificazioni.
Dispiace dirlo, ma pur nella sua consequenzialità e compitezza formale questo Under Electric Clouds è il tipico film da festival in cui si affastellano idee da esportazione, forse un precipitato non del tutto a fuoco della “linea ereditaria” Tarkovskij-German (padre)-Sokurov.
Un “film superfluo” dunque, per parafrasare il sintagma utilizzato nell’incipit dallo stesso autore, ma non per questo inutile.
Titolo originale: Pod electricheskimi oblakami
Nazione: Russia, Ucraina, Polonia
Anno: 2015
Genere: Drammatico
Durata: 138′
Regia: Alexey German Jr.Cast: Louis Franck, Merab Ninidze, Viktoriya Korotkova, Chulpan Khamatova, Viktor Bugakov, Karim Pakachakov, Konstantin Zeliger, Anastasiya Melnikova, Piotr Gasowski
Produzione: Metrafilms, Linked Films, Apple Film Productions, Tor Film Studio
Data di uscita: Berlino 2015