In una non meglio identificata cittadina della provincia georgiana, Nina fa l’ostetrica all’ospedale locale e, oltre a dover affrontare dei seri problemi sul posto di lavoro a causa di un neonato morto di ipossia durante un parto complicato, viene accusata di praticare aborti illegali per le ragazze di villaggi sperduti alle pendici dei monti del Caucaso…
La 38enne regista georgiana Dea Kulumbegashvili, con questo suo nuovo lavoro in programma all’interno del concorso principale dell’edizione 81 della Mostra del Cinema di Venezia, continua ad esplorare i lati oscuri della femminilità e, soprattutto, della condizione della donna in un universo ancora profondamente patriarcale come quello georgiano: una ricerca che prosegue quella inaugurata dal suo primo lungometraggio Beginning (2020), pluripremiato al Festival di San Sebastian con il plauso di Luca Guadagnino, co-produttore di April.
Se in Beginning, ambientato all’interno di una comunità georgiana di Testimoni di Geova, si narravano i molteplici traumi di Iana, una donna insoddisfatta del suo rapporto col marito e coi correligionari, con grande dovizia di scene crude e scioccanti nella loro asciutta freddezza (l’incendio della ‘Sala del Regno’ in apertura, lo stupro che Iana subisce da parte di un ispettore della polizia, il terribile gesto estremo della protagonista nel finale), qui vengono messi in scena i fantasmi di un altro personaggio femminile alle prese con quella che sembrerebbe la quintessenza della femminilità, ovvero la gravidanza. Nina, a differenza di Iana, si è sempre rifiutata categoricamente di sposarsi, anche con il collega ginecologo che l’aveva corteggiata in passato, e di mettere su famiglia – il che, peraltro, pare non renderla meno nevrotica e frustrata. A mo’ di contrappasso, cerca di venire incontro, tanto con la contraccezione quanto con aborti praticati clandestinamente in casa, ai bisogni di ragazze di campagna, talvolta di fede islamica, che come lei non intendono avere figli – con tutti i rischi che ciò può comportare.
Stando alle note di regia, Nina sarebbe “una persona in grado di sopportare sofferenze e incanalare quel dolore nelle scelte e ambizioni della sua vita. Nonostante questo, resta con i piedi per terra e ben separata dal resto del mondo. Con ‘epico’ non intendo lo stile narrativo, ma la vasta portata della vita e dell’esistenza di un individuo […] Nina vive la vita austera di un medico, rischiando la propria serenità per fornire aborti illegali a chi ne ha bisogno. Incontra le donne nei loro momenti più intimi, in preda a un travaglio straziante quando stanno per diventare madri o durante aborti dolorosi e clandestini di nascosto dalla famiglia. Nina è un personaggio che ama universalmente ma non ama nessuno in particolare. Possiede un’empatia sconfinata ma fa fatica a stabilire legami personali. Spinta unicamente dalla propria missione, non desidera e non ha bisogno di nulla per sé. Alla fine si ritrova però incapace di contribuire a un vero cambiamento”.
Purtroppo, non solo Nina si ritrova alla fine incapace di contribuire a un vero cambiamento, ma anche April, nelle sue 2 ore e 15 minuti di durata, si ritrova discontinuo, incoerente, con una sceneggiatura qui e lì improbabile, di una lentezza esasperata e di una freddezza che rende ben difficile percepire l’”empatia sconfinata” della protagonista. Come in Beginning, Kulumbegashvili opta spesso per long take e inquadrature statiche (in scene di una lunghezza estenuante), spostando il focus su una prospettiva eccentrica e straniante quando si tratta di mostrare le visite ginecologiche o l’aborto clandestino (il “travaglio straziante” di cui sopra), ma in compenso riportando l’obiettivo sul centro della scena al momento dei parti, con tutto il naturalismo potenzialmente disturbante del caso. Il parto culminato nella morte tragica del neonato, d’altronde, pare una specie di ‘aborto involontario’ praticato da Nina, una crudelissima ironia della sorte che troverà una concreta materializzazione nella mostruosa figura fetale di dimensioni ‘adulte’, perno di una serie di momenti onirici-orrifici (forse le ‘visioni’ di una Nina in preda al senso di colpa durante la sua crisi etico-professionale?) intrecciati con l’elemento del fango legato a un ricordo traumatico dell’infanzia della protagonista, a suo tempo incapace di aiutare la sorella in pericolo di annegamento in una palude. Probabilmente tali momenti, che qui e lì sfiorano il ridicolo involontario, sono parte di quell’‘epica’ il cui respiro la regista intendeva fornire al film, ma è difficile affermare che ci sia riuscita. Così come i (rari) momenti in cui lo schermo si mette in moto, in primis al di là del parabrezza della macchina che porta Nina verso i monti del Caucaso, nonostante la suggestività e la bellezza della natura che vediamo in questi excursus, appaiono poco amalgamati al contesto generale e deprivati di una funzione intelligibile per lo spettatore medio. Così, una riflessione potenzialmente molto interessante sul rapporto tra femminilità e maternità, vita incipiente e vita consegnata alla morte prima ancora di iniziare rimane, purtroppo, un’occasione sprecata che non mantiene le promesse di Beginning.