Cosa potrebbe succedere se un uomo, giorno dopo giorno, interpretasse per lavoro la parte di un marito, di un figlio, di un allenatore alla comunicazione, “affittato” da sconosciuti? Questa è la storia di Matthias, un giovane uomo che, a furia di essere costantemente qualcun altro non riesce più a comprendere chi sia davvero. “Peacock” racconta di come la finzione possa farsi strada nella realtà, plasmando e confondendo la mente umana, scardinando i dogmi della percezione.
Questo processo viene rappresentato attraverso un’ironia straordinaria, ben distante dalla commedia all’italiana o dall’umorismo francese – trattasi infatti di una produzione austro-tedesca – e più vicina al sarcasmo nordeuropeo, ma non per questo meno godibile.
Un’opera che per molti aspetti strizza l’occhio a “The Square” dello svedese Rubén Östlund, ma senza mai perdere la propria identità ed originalità.

“Peacock” sembra muoversi in una direzione ben definita: come con una sorta di lento e costante zoom – parzialmente effettuato anche fisicamente, mediante la macchina da presa, che cattura con lo scorrere del tempo un numero sempre crescente di primi piani – il protagonista si domanda sempre più ossessivamente chi voglia essere, o diventare, ed è proprio in questa duplice possibilità che vi è il fulcro narrativo del film.
Esteticamente la psicologia di Matthias si riflette nella cura maniacale di ogni dettaglio scenografico, con un’attenzione e, ancora una volta, una sagace ironia e una non poi così velata critica nei confronti del design contemporaneo.
Le interpretazioni sono di ottimo livello e credibili, nonostante la caratterizzazione dei personaggi sia al limite del surrealismo il protagonista e coloro che orbitano attorno a lui rimangono sempre ancorati ad una, seppur sui generis, parvenza di realtà.
Altro aspetto che rapisce l’occhio è senza dubbio il colore: se le inquadrature, spesso fisse e in prospettiva centrale, ricordano alcune opere del regista svedese Roy Andersson come “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” (Leone d’oro 2014) o “Sull’infintezza” (Leone d’argento 2019), i toni vividi rivendicano con fermezza l’indipendenza da altri modelli cinematografici, citati ma mai copiati.
Un film in grado di far ridere, ma anche di riflettere su un tema sempre attuale e su altri estremamente contemporanei, formalmente elegante e ben strutturato sotto il punto di vista narrativo: una piccola chicca.