Ritratto transgenerazionale e di genere, Mu’a trên cánh bu’o’m (Don’t Cry, Butterfly) di Duong Dieu Linh si configura come un esordio incredibilmente maturo, sia per l’utilizzo del mezzo cinematografico che per il tipo di sguardo mantenuto sul paese d’origine dell’autrice (il Vietnam), la cui rappresentazione sul grande schermo è stato a lungo appannaggio del cinema odeporico europeo – Joris Ivens e soci – o della cattiva coscienza dei pionieri della New Hollywood, e in ogni caso sempre e solo attraverso la lente deformante – e inevitabilmente occidentalocentrica – della conflitto imperialista del secolo scorso.

Scoperto il tradimento del marito, Tam – Le Tu Oanh, una delle attrici più rinomate in patria – decide di rivolgersi a una sciamana per riconquistarlo. Intanto la figlia Ha – Nguyen Nam Linh, di professione assistente di produzione, qui al suo primo ruolo da attrice – sogna di lasciare Hanoi per l’Europa insieme all’amico Trong – Bui Thac Phong –, che vive al piano di sotto. Ma le delusioni, dentro e fuori casa, non sembrano voler dare tregua a madre e figlia, mentre una strana perdita sul soffitto si allarga di giorno in giorno.
Per il suo primo lungometraggio, che rappresenta la sublimazione dei tre corti realizzati tra 2018 e 2020 sul tema della difficile condizione delle donne di mezza età in Vietnam, Duong mette molta carne al fuoco, ma non troppa, dacché tutto trova la propria collocazione nell’economia di un film che è sì stratificato, ma non confuso.
Attorno alla protagonista Tam si organizza il nucleo centrale, ovvero quello delle delusioni affrontate dalle donne della generazione precedente, cresciute nel solco di una morale che prescriveva il matrimonio in giovane età, la parsimonia, l’abnegazione verso marito e figli, e che ora si ritrova a fare i conti con l’ingratitudine di questi ultimi, nonché con nuovi standard di bellezza e di condotta rispetto ai quali non risultano più “al passo”.
Su questo si innesta quindi il secondo nucleo, ovvero quello delle angosce delle ragazze della generazione attuale, dove la consapevolezza dell’impossibilità ad avere un dialogo sincero con i genitori – e quindi, per traslato, dell’impossibilità a cambiare un paese che non li ascolta – si traduce nel desiderio di fuga, possibilmente verso lidi i cui riferimenti valoriali siano il più lontano possibili da quelli di casa.
Due nuclei che non sono tra loro compartimenti stagni, ma vasi comunicanti, interessati da un perpetuo moto ondivago di avvicinamento/allontanamento: avvicinamento, nel comune destino di subordinazione a uomini i cui privilegi sono legati a una definizione di virilità ormai evanescente – come testimoniato dalla figura del padre/marito Thanh –; allontanamento, nei diversi modi di far fronte a detto destino – emancipazione attraverso lo studio per Ha, ricorso a santoni e riti magici per Tam –, che restano reciprocamente incomprensibili.

A prescindere dalla parte in causa, però, Don’t Cry, Butterfly è imparziale nel mettere in luce come entrambe le protagoniste siano in buona sostanza paralizzate dalle proprie frustrazioni, la cui materializzazione sarebbe la creatura – un po’ fallo, un po’ tentacolo della bestia de La regiòn salvaje (2018) di Amat Escalante, liberamente ispirato alla figura del Tiktik, il demone succhiatore di sangue del folclore filippino – che dalla perdita sul muro si allunga a soddisfare i loro bisogni inascoltati – sessuali nel caso della madre, di accettazione nel caso della figlia.
Avvalendosi di una sapiente alternanza dei piani di realtà e finzione, per mezzo di espedienti sofisticati quali il montaggio ingannevole, riprese in terza persona con fish eye, sovrapposizione di tracce sonore, uso diegetico del fuoricampo, Duong offre in Don’t Cry, Butterfly un ritratto sincero di un paese che non solo è cambiato, ma continua a cambiare, smarcando il Vietnam dalle rappresentazioni primitivistiche ed essenzialiste di certe coproduzioni tutte location esotiche e sorrisi smaglianti – si pensi alla coproduzione nippo-vietnamita Blowing In The Winds Of Vietnam (2015), che forse proprio per questo è stata un successo al botteghino più all’estero che in patria – in cui di commento sociale non c’è nemmeno l’ombra.
Forte di una scrittura misurata e arguta, che si serve dell’umorismo quale motore primo degli sviluppi, nonché di una riuscita contaminazione tra l’horror e il dramma generazionale, Don’t Cry, Butterfly non è solo la bella sorpresa di questa edizione della SIC, ma di tutto il festival. E speriamo che la distribuzione del Vecchio Continente non sia tanto miope da lasciarsela sfuggire.