Hell Yeah! Eccolo, il film che stavi aspettando. La tua garanzia estiva sul grande schermo. Baby Driver non può deludere, è di Edgar Wright. Chi? Dai, quello della Trilogia del Cornetto: almeno Shaun of the Dead l’avrai visto (se lo conosci con il titolo in italiano sei uno sfigato). Quello di Scott Pilgrim, no? Ah, ecco. Ci siamo. Strizziamoci l’occhiolino vicendevolmente, anzi – non siamo mica WASP imbalsamati – likeamoci con l’emoticon sbagliata, una che non c’entra niente, che le solite sono da loosers.
Grazie Edgar. Se c’è ormai un vero portavoce cinematografico dell’incasinata generazione di Xennial, sei proprio tu. E non è facile, lo sappiamo. È dura destreggiarsi tra categorie ed etichette di questi tempi, essere marchiato come nerd, hipster, geek ed essere già considerato, dopo una manciata di film, un autore cult perché si amano fumetti, musica, videogiochi e un modello di cinema che usa il genere in maniera intelligente, citazionista e contemporanea. Ma di questi tempi digitali senza oblio, ogni piccolo appiglio che non si sgretoli subito, è ben accetto.
Baby Driver – tralasciamo, per cortesia, il sottotitolo italiano – ci offre la nostra dose di smart drug cinematografica modaiola (ma non troppo), irriverente (ma senza indispettire nessuno) e goliardica (offenderà qualcuno? No, tranquilli). Ma andiamo con ordine.
La trama è dritta come un fuso, o come una pista per dragster. Baby (il promettente Ansel Elgort) è un grande al volante. Guida tutto, al massimo. Occhiali da sole e cuffiette bianche sono la sua divisa. Il fastidioso acufene che sibila nelle sue orecchie dall’incidente in cui ha perso i genitori sparisce solo quando ascolta musica dai suoi iPod. Quindi la ascolta sempre. Sempre, tutta. Anche quando fa l’autista per Doc (e grazie, come sempre, Kevin Spacey).
No, non lo chaffeur: Doc organizza rapine, seleziona la squadra e Baby guida. E non gli sta dietro nessuno. I colpi si susseguono, Baby vorrebbe lasciare ma, si sa, finché le cose vanno bene, non si può abbandonare il giro, se non uscendone orizzontali, con i piedi davanti. Poi, semplicemente, accade Deborah (Lily James, miglior prova in carriera). La musica si alza e la fuga, quella vera, sembra dietro l’angolo. Se solo…
Baby Driver non è la versione nerd e scanzonata di Drive di Nicolas Winding Renf. Baby Driver è un action musical sincopato e un heist movie a ritmo di hit riscoperte, un concentrato di canzoni cool e raffinate capaci di prendere il comando della narrazione e immergere lo spettatore nel mondo trasognato del protagonista. Un piacere per le orecchie prima ancora che per gli occhi, con immagini – in fin dei conti – meno sorprendenti.
Ascolta la colonna sonora di Baby Driver – Il genio della Fuga:
Alla cascata delirante ed eterogenea di pezzi tutti da scaricare (legalmente mi raccomando; sì, vabbé, geek…), Baby Driver aggiunge i tratti peculiari della personalità cinematografica di Wright con riferimenti liquidi, citazioni anni ’80 (dove vai se la musicassetta non ce l’hai), un po’ di sangue e violenza e il profumo della sterminata cultura post-Pop del regista.
C’è un però. Finché la musica gira, i brani impazzano e sight&sound spingono al massimo, Baby Driver emoziona e intrattiene, stupisce e solletica i nostri istinti cinefili e musicali. Però. Quando si devono tirare le somme, l’azione rompe la barriera del suono e fucili automatici e motori mettono in secondo piano l’energia della colonna sonora, il film perde la sua carica dirompente per tornare sui binari, collaudati, di un action come altri, un po’ ripetitivo.
Non che Wright si sia completamente addomesticato nella traversata americana – è il suo primo film girato internamente negli States, ad Atlanta -, ma anche per il regista inglese già cult, iniziare pigiando subito il pulsante del NOS per poi tirare il freno a mano in vista del traguardo, può essere un gioco pericoloso.