Come da tradizione, da qualche anno il doppio appuntamento di settembre con la Gustav Mahler Jugendorchester inaugura la stagione musicale del Teatro Giuseppe Verdi di Pordenone. Quest’anno, più che mai, la scelta del programma, la qualità dell’Orchestra, la presenza del leggendario direttore Herbert Blomstedt, accanto a quella del baritono Christian Gerhaher, hanno contribuito ad accrescere l’attesa.
Impaziente nell’annoverarsi tra i testimoni di un evento per certi aspetti irripetibile, determinato anche dall’importante età del direttore, e per questo pronto a sorvolare su possibili piccoli cedimenti tecnici, il pubblico ha dovuto ben presto ricredersi, abbandonandosi con gran stupore e soddisfazione all’essenza del concerto. D’altronde nessuno poteva immaginare che il gesto del novantaduenne Blomstedt potesse tradursi istantaneamente nel suono caldo che ha avviato i Canti biblici op. 99a di Antonin Dvořák. Mano aperta e dita unite che non lasciano spazio alla bacchetta, Blomstedt richiama l’orchestra a sé preferendo un impianto sonoro per certi aspetti cameristico, avviato su tinte più calde e ambientazioni più intime rispetto al concitato intreccio che la consuetudine ha imposto.
Allo stesso modo si inserisce il canto di Christian Gerhaher, totalmente teso all’interpretazione del testo al costo di sacrificare la rotondità del suono, soprattutto nei pochi, ma ben organizzati, punti di climax. La padronanza esibita dal baritono nei Canti biblici si è inevitabilmente rafforzata nei Rückert Lieder di Mahler, facendo intendere una maggiore frequentazione dell’opera, oltre all’inevitabile familiarità con la lingua tedesca, rispetto al ceco del ciclo di Dvořák.
Blomstedt affronta la Sesta Sinfonia di Antonin Bruckner senza il supporto della partitura, completamente a memoria, dimostrando piena concentrazione e sorprendente lucidità. Una lettura che si rivela particolarmente analitica nelle sezioni dell’elaborazione del materiale, dove il direttore edifica l’architettura sonora trattenendone fino all’ultimo passaggio la carica espressiva, pur mantenendo intelligibile il suo innato senso della direzione.
Se nel Poema sinfonico Morte e Trasfigurazione di Richard Strauss l’impeto che percorre l’opera viene magistralmente padroneggiato in funzione dell’espressione musicale, la Terza Sinfonia di Beethoven appare un po’ troppo trattenuta sin dal tema del primo movimento. Un’influenza che ha inevitabilmente intaccato il carattere fiero dell’Eroica, trasformando gli attimi di tensione armonica in momenti di stasi. Diversamente dalla Sesta di Bruckner, dove l’elaborazione rappresentava la parte più interessante nell’interpretazione del direttore svedese, il fugato della Marcia Funebre di Beethoven si è svuotato della tensione necessaria a sviluppare il pensiero del compositore di Bonn.
Dettagli a parte, entrambe le serate si sono meritate la trionfale accoglienza del pubblico che ha affollato il Teatro Verdi, acclamando a più riprese, meritatamente, la giovane orchestra e i solisti.