La vita gira se sa

Che te go persa se sa

No no podevo sposarte in miseria

La vita xe seria co’ cambia l’età.

Questo è il ritornello di una delle più belle canzoni di Alberto D’Amico, che è purtroppo scomparso pochi giorni fa a Santiago de Cuba.

Chi era Alberto? Tante volte mi sono chiesto chi fosse, per l’aura fascinosa che si portava dietro e con la quale immagava tutti. Certamente aveva scelto, come forma espressiva, il canto. E le sue canzoni sono diventate quasi proverbiali, a Venezia. Una Venezia tutta sua, fatta di bellezza e sporcizia, di abbracci e rabbia. Cantava sempre, Alberto. Non tanto e non solo Venezia quanto i veneziani, ma soprattutto i poveracci, o gli ultimi per usare un termine corrente. Ne faceva un’epopea, degli sfruttati che andavano in guerra, o in guerra restavano per guadagnarsi il pane. Ma cantava straordinariamente le calli, i rii, i volti scavati delle persone che incontrava. Aveva un dono assoluto, guardava, ascoltava e l’immagine si faceva parola. E tutti viaggiavamo, con quel suo dialetto strepitoso, in mezzo ai sogni anche più nascosti, come se ci togliesse le ombre dei ricordi.

L’impegno e l’attenzione alla musica popolare, nel senso ormai quasi dimenticato di ‘senza autore’, l’avevano accostato a figure fondamentali della storia musicale veneziana, come Gualtiero Bertelli e Luisa Ronchini, con i quali aveva fondato il Nuovo Canzoniere Veneto.

Ma sono sempre stato convinto che Alberto, un non troppo bravo chitarrista, avesse molto più da dire di così, e che la testimonianza di un patrimonio poetico e culturale, peraltro fondamentale, fosse soltanto l’incipit del suo discorso infinito. Leggeva nelle menti delle persone, sradicava le paure con le parole. Ogni volta che sento, ancora e ancora, il finale di Muri alte e inferiae, dedicata a un carcerato che non potrà più uscire di cella, mi viene in mente il punto di vista di chi canta, cioè appunto il detenuto, e quello, evocato, di sua madre che lo aspetta fuori (finisce con amarezza, «La giustizia mama / M’ha ciapà la gola / Da ‘sta malatia / No me salvo più»).

Alberto D’Amico prescinde le categorie, come ogni poeta che si rispetti. Va oltre i sensi determinati, crea mondi, apre brecce. E in quelle fessure così dolorose e belle sono cresciuto, e per questo almeno lo ringrazio.

Sua figlia Lisa mi ha fatto notare che il terzo dei suoi quattro dischi pubblicati, Aneme, realizzato in pieni anni Ottanta, è un album tutto incentrato sulla morte. Non ci avevo fatto caso. Ma il pensiero poetico ti porta altrove, ti immette in un campo di rose fiorite (tra l’altro uno dei pezzi, proprio «Rosa fiorita», è la restituzione di un canto popolare anonimo dell’Ottocento veneziano). I poeti sono importanti, spesso ce lo dimentichiamo, ma sono loro a costruire la nostra identità, a caratterizzare i sorrisi, i pianti e il guardare avanti. Non avrei mai voluto che Alberto rimanesse in silenzio. Ricordo quando fece un esperimento ardito, con Flores, il suo ultimo album, se non sbaglio del 2005: lì aveva fatto cantare a un coro di fanciulle cubane dei versi in perfetto veneziano. Ma in quello stesso disco raccontava la violenza subita da Jasmina, una ragazza irachena, da parte di tre soldati americani. La dolcezza della sua voce trascendeva anche i nodi più cruciali. E infatti ricordo quella canzone come un brano d’amore.

La sua dimensione epica è quella più conosciuta, e si allarga molto oltre la città di Venezia. È quella di Ariva i barbari, di Giudeca, canzoni che per qualche generazione erano solo un culto per appassionati e che adesso finalmente ritornano nelle bocche dei ragazzi di oggi. Ma personalmente considero immortali le parti liriche, da Cavarte dal fredo all’infinita voce che dà a un uomo, tradito dalla vita e condannato al carcere, anche questa un suggestione popolare («Chi mi ha tradito / Era un mio amico / E de nome se ciamava Nero / Lo credevo un amico sincero / Mentre invesse el m’ha rovinà /O Nero Nero / dove tu sei / Ingannatore della vita mia / Fosti tu la mala spia / Che in galera m’ha fatto andar»).

Un poeta inestimabile, Alberto. Sempre con le orecchie tese per sentire cosa diceva la gente. E processare il dolore ma anche la gioia per immagini, come se fossero sculture. E tutti noi siamo cresciuti con quelle sculture immateriali, le abbiamo fatte nostre nel senso più intimo della parola ‘nostre’, oppure le abbiamo rifiutate, alle volte impauriti dalla lucidità della sua scrittura. Perché al di là del mezzo che aveva scelto per dire la sua, quello che rimane è il grandissimo poeta che ha fatto commuovere centinaia e centinaia di persone. Con quella voce da baritono, con la mescolanza di Sicilia, Venezia e Cuba: tre isole, tre sogni.

Ora la voce si è spenta, purtroppo. E nemmeno ascoltare le sue canzoni lenisce il dolore di non sentirle più cantate da lui, magari male e con la chitarra scordata. Si rimaneva tutti e sempre immobili e silenziosi quando dava una sferzata con due parole di magia: «Me piasaria / Quando che mor ’na stea / Andar in cielo / Andar morir co ea / Mi ghe diria / Più che el to ciaro se stua / Più Ti se bea / Più ti me piasi».