Convegno di Studi “L’Animazione e le Arti” – Seconda Giornata

Gli incontri di Venerdì 21 Ottobre

La giornata conclusiva del Convegno di Studi L’Animazione e le Arti, svoltasi interamente nella suggestiva Sala delle Edicole di Palazzo del Capitanio, si è aperta la mattina di Venerdì 21 Ottobre con l’intervento di Priscilla Mancini, saggista e critica d’arte che ha illustrato l’attività di Elena Chiesa, graphic designer pioniera di un particolarissima tecnica di animazione digitale da lei stessa definita melting art. Questa consta di una commistione di poesia, grafica e pittura, in cui i pixel, grazie al supporto informatico, vengono letteralmente sciolti come se si stesse lavorando sulla tela conseguendo un risultato estremamente fluido.

Dopo l’introduzione della dott.ssa Mancini, è stata mostrata un’originale autointervista in cui Elena Chiesa rispondeva alle domande precedentemente inviatele per via telematica. La sua passione per l’animazione, sbocciata già al liceo, è maturata con l’attività di grafica: man mano che prendeva confidenza col computer scoprì infatti di potersene servire per disegnare in un modo mai sperimentato prima. Alla poesia si interessò soltanto in seguito, quando Paolo Podestà la invitò al Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” chiedendole di realizzare delle animazioni per alcune poesie di Montale: giunse così a comporre dei propri versi che la portarono anche a una collaborazione col noto poeta inglese Felix Dennis, recentemente scomparso. L’artista paragona la sua tecnica allo scrivere sulla sabbia per il fatto che le immagini non paiono scandite da stacchi né suddivise in scene, in un unico flusso che permette allo spettatore di vedere le cose prendere vita passo dopo passo. A conclusione del contributo sono state proiettate alcune animazioni di Elena Chiesa: Metà e metà (2005), una rappresentazione onirica del rapporto di coppia, Traversate (2010), che tratta degli ostacoli che nella vita siamo costretti a sormontare, e I have a secret servant (2010), basato sul testo di un’omonima poesia di Dennis.

Fotogramma da "I have a secret servant" Credits: Elena Chiesa
Fotogramma da “I have a secret servant” (2010) Credits: Elena Chiesa

Ha quindi preso la parola Marco Vanelli, direttore della rivista Cabiria – Studi di Cinema e vicepresidente del CINIT, che ha reso omaggio al genio di Norman McLaren ripercorrendo le tappe più significative del suo percorso artistico. Scozzese di nascita, dopo i primi cortometraggi amatoriali nel 1937 McLaren fu chiamato a lavorare presso il General Post Office Film Unit da John Grierson, dove ebbe modo di conoscere altri animatori accomunati dalla medesima volontà di sperimentare: in periodo bellico emigrò negli Stati Uniti e successivamente in Canada, dove raggiunse la maturità artistica presso il National Film Board e restò fino alla morte.

Per quanto i suoi maestri fossero i grandi dell’Espressionismo tedesco e del Costruttivismo russo, McLaren diede vita a «un cinema senza cinepresa, in cui la pellicola è utilizzata come supporto su cui disegnare direttamente»: è evidente già in Loops (1940), antecedente alla fase dell’astrattismo puro –cui appartiene A Phantasy of Colors (1949), dove McLaren rompe definitivamente l’unità del frame–, in cui forme cangianti si muovono in uno spazio che è ancora quello del fotogramma.

Non a caso risale al 1940 Fantasia di Walt Disney, un tentativo di combinare la colonna sonora con disegni che non necessariamente corrispondono a una narrazione ben precisa che dimostra come queste esigenze sperimentali fossero condivise anche da altri artisti. Ma esiste un altro volto di McLaren, un volto più antropologico interessato alla problematica della figurazione: un esempio ne è The Critic (1963), in cui uno spettatore qualunque –cui presta la voce Mel Brooks– commenta sarcasticamente l’opera dell’animatore scorgendovi persino delle oscenità –più di una volta McLaren era stato accusato di occultare metafore sessuali nei suoi film.

Ancora, Mosaic (1965) rappresenta l’apice delle sue ricerche sulla dimensione lineare delle figure geometriche, con un risultato che si avvicina alla optical art, un’arte che a partire da principi gestaltici si cimentava nel mettere alla prova i limiti della percezione umana. Il dott. Vanelli ha poi concluso la retrospettiva con la proiezione di The Flicker Film (1961), l’esperimento che lo stesso McLaren definì «troppo esoterico per essere riprodotto in pubblico» e che costituì il punto di partenza per il suo capolavoro del 1971, Synchromy.

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Fotogramma da “Synchromy” (1971)

E’ seguito il collegamento via Skype con Carlo Montanaro, uno dei massimi critici cinematografici italiani e a oggi promotore di numerose iniziative culturali legate alla settima arte, tra cui Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Nel corso del suo contributo Il disegno astratto sullo schermo tra performance e cinema, Montanaro ha cercato di risalire alle radici dell’astrazione legata alla pellicola cinematografica. Si cominciò a pensare alla scrittura diretta su pellicola a partire dall’osservazione dei segni casuali che era possibile vedere durante una qualsiasi proiezione, ma l’origine può essere ricercata ancora più indietro.

Come sottolineato dal pittore e fotografo David Hockney nel suo Secret Knowledge – Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters, con la nascita della fotografia nel 1839 il mondo dell’arte fu sconvolto da una vera e propria rivoluzione, dacché l’obiettivo della macchina fotografica –e successivamente della cinepresa– sottrasse una serie di prerogative prima appannaggio esclusivo della pittura. Tuttavia, se da un lato la pittura ha sofferto una sottrazione di controllo sull’immagine, lo stesso non si può dire del cinema d’animazione, che ha sempre avuto il controllo totale di ogni singolo frame cambiando al più i supporti tecnici di pari passo col progresso tecnologico, mantenendo di conseguenza la possibilità di sperimentare con maggiore libertà.

Concluso il collegamento, Cristina Parisotto, collaboratrice della Scuola Comics di Padova, ha condotto un excursus sull’animazione commerciale degli ultimi anni ponendo l’accento sugli aspetti produttivi: infatti, «anche se l’animazione è comunemente associata al mondo dei bambini non bisogna pensare che il lavoro che vi sta dietro sia altrettanto idilliaco». La costruzione di un universo immaginario richiede uno sforzo sia autoriale che professionale, che molto spesso si traduce, in ambito televisivo come in ambito cinematografico, in rigide tabelle di marcia e budget limitati entro cui mantenersi. In Germania per esempio non è possibile produrre film autoriali poiché il rischio non è contemplato nemmeno in minima parte: ne consegue che gli unici progetti a venire approvati saranno cartoni tratti da favole tradizionali o da successi per bambini.

E’ prassi comune inoltre mettere il regista sotto contratto soltanto per metà della produzione, cosicché si veda costretto a lavorare gratuitamente o a salario ridotto pur di concludere la sua opera. Un altro espediente per limitare le spese è quello di ridurre al minimo gli studi sugli effetti speciali, spesso affidati a manodopera non competente o esterna allo studio di produzione. Infine, un progetto può venire del tutto abortito o tradursi in un flop qualora vi sia un cambio di rotta a produzione inoltrata: tuttavia, avendo alle spalle un’istituzione solida tornare sui propri passi può portare al risultato opposto. Basti pensare a Zootropolis, grande successo della Disney: dopo averlo animato per due terzi dal punto di vista della volpe Nick, ci si rese conto che la prospettiva eccessivamente cinica e disillusa di questo personaggio avrebbe influenzato negativamente il pubblico, mentre raccontando la stessa storia attraverso gli occhi della coniglietta Judy esso si sarebbe affezionato a Zootropolis e ai suoi abitanti. La dott.ssa Parisotti ha concluso specificando che anche nel panorama italiano troviamo degli esempio virtuosi, come le animazioni realizzate per celebrare il Giubileo: in seguito a drastici tagli al budget, gli autori sono comunque riusciti a ingegnarsi e a raccontare in maniera essenziale e divertente le origini di questa ricorrenza.

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Successivamente Andrijana Ruzic, esperta di animazione e curatrice della sezione Film e Film d’Animazione del Festival Internazionale del Fumetto di Belgrado, ha presentato una selezione di tre opere dell’animatore svizzero Georges Schwizgebel mettendone in luce analogie e differenze. In primo luogo, i film di Schwizgebel sono stilisticamente coerenti e facilmente riconoscibili, dal momento che l’artista utilizza sostanzialmente una rosa di tre tecniche, vale a dire acrilico su rodovetro, colori a olio e cutout su rodovetro.

I primi collaboratori di Schwizgebel sono poi i musicisti: pur non avendo ricevuto un’educazione musicale accademica non inizia mai ad animare senza aver prima sottomano la colonna sonora, il che obbliga i compositori a trovare o ideare quella adatta a partire dai suoi storyboard. Il fine ultimo è far sì che «musica e immagine si sposino in una perfetta forma pittorica in movimento», come è evidente ne La corsa all’abisso (1992), un film concettuale con un movimento a spirale della macchina da presa a creare un loop, realizzato come esperimento sulle potenzialità pittoriche e dinamiche del medium dell’animazione.

Altro filo rosso è il tema faustiano del rapporto dell’uomo col Demonio, perfettamente sintetizzato ne L’uomo senza ombra (2004), libero adattamento del romanzo Storia straordinaria di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso: pur proponendo una tradizionale storia di patto col diavolo, il film si sofferma sulle ombre –che ne sono le vere protagoniste– e sui pentimenti della pittura. L’amore di Schwizgebel per la Storia dell’Arte è spesso ribadito attraverso una serie di citazioni più o meno eloquenti e raggiunge il culmine in Romance (2011), dove il protagonista passa da una tela all’altra facendo sì che il messaggio quasi si dissolva nell’infinità di richiami pittorici. Un ultimo e forse meno noto lato di Schwizgebel è l’attenzione tipografica: è sua opinione infatti che il font in cui sono scritti i caratteri sia a sua volta una chiave di lettura e un mezzo per trasportare lo spettatore nell’atmosfera del film.

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Fotogramma da “L’uomo senza ombra” (2004)

A seguire, Davide Giurlando, organizzatore del Ca’ Foscari Short Film Festival e docente del Master of Fine Arts in Filmmaking, ha approfondito la fasi iniziali della carriera dell’animatore americano Bill Plympton e le sue influenze artistiche. Dopo un primo corto amatoriale realizzato da studente per l’annuario della Portland State University, nel 1968 si trasferì a New York presso la School of Visual Arts iniziando la sua attività di illustratore come caricaturista. In questo periodo Plympton deve ancora formare il proprio stile ed è più evidente l’imitazione dei grandi maestri, come gli illustratori A.B. Frost e N.C. Wyeth, il designer Milton Glaser e il vignettista del New Yorker Saul Steinberg, o Charles Addams per quanto concerne il black humor.

Come molti autori dell’epoca Plympton ama la satira politica e anticapitalistica, in particolar modo quella di Jules Feiffer e del suo Munro, che racconta l’arruolamento di un bambino di quattro anni nei marines, mentre tra i coetanei ammira soprattutto Garry Trudeau, autore dell’interminabile saga a strisce Doonesbury da cui riprenderà la raffigurazione di Kissinger e l’interesse per la metamorfosi, presente anche nel suo capolavoro Your Face (1987). Per capire Plympton non possiamo poi fare a meno di considerare l’esempio di Mad Magazine e National Lampoon, le due maggiori riviste satiriche degli anni Settanta: il suo interesse per il raunchy humor emerge in lavori successivi quali Sex & Violence (1997) e Surprise Cinema (1999), le cui trovate riprendono in buona parte le strisce pubblicate sulle loro pagine. Per quanto riguarda il futuro, a detta di Giurlando «Plympton non è mai stato animatore come ora»: rispetto al passato ha abbandonato la sua vena caustica nell’intento di narrare storie universali dove la parola non è più necessaria, come Cheatin’ (2014), delicato racconto della crisi di una relazione.

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Fotogramma da “Your Face” (1987)

In seguito Marco Bellano, docente di History of Animation, ha parlato in veste di esperto musicale del barocco nelle colonne sonore create per lo Studio Ghibli dal compositore Joe Hisaishi –all’anagrafe Mamoru Fujisawa, il suo nome d’arte è un omaggio al leggendario Quincy Jones secondo la pronuncia della traslitterazione giapponese. Il suo sodalizio con Hayao Miyazaki rappresenta «una delle collaborazioni più lunghe e proficue della Storia del cinema d’animazione» e non si può ridurre a semplice rapporto di lavoro: tra i due esiste una sorta di «simbiosi artistica» le cui origini risalgono al 1984 con Nausicaä della Valle del Vento, ormai unanimemente considerato il primo film Ghibli ma prodotto ancora in seno alla Toei.

In quegli anni Hisaishi era un giovane compositore eclettico interessato all’elettronica e al violino –il pianoforte fu uno strumento d’adozione– che aveva alle spalle già due album come cantautore e alcune colonne sonore per film e serie animate, come quella realizzata per Giatrus, Il Primo Uomo (1974): tuttavia, nel primo lungometraggio di Miyazaki vi è una comunione d’intenti che non riscontriamo nei lavori precedenti, per quanto lo stesso Hisaishi insista nel dire di essersi limitato a sperimentare «senza badare molto a quello che voleva il regista». Nella colonna sonora di Nausicaä è possibile rintracciare una vena melodica e riferimenti alla musica colta del tardo Romanticismo come pure l’Hisaishi più pop, ma vi è anche un motivo di quattro note discendenti che ricorre a più riprese –non necessariamente nei momenti più significativi– e tesse un filo rosso attraverso tutta l’opera: tale volontà ordinatrice è evidente se compariamo il brano Tori no Hito –che rivela una sorta di “esotismo al contrario” per l’Occidente al pari di Miyazaki– da Nausicaä della Valle del Vento a Umi no Mieru Machi da Kiki consegne a domicilio (1989), in cui invece il motivo di quattro note è intessuto all’interno della melodia.

Se guardiamo poi a Sora Kara Futtekita Shoujo da Laputa – Il Castello nel Cielo (1986), la melodia più lunga composta da Hisaishi, troviamo dei motivi che ricorreranno anche nei film successivi in concomitanza con la presenza del volo, tema molto caro a Miyazaki e che simboleggia il raggiungimento di una prospettiva migliore delle cose piuttosto che la fuga dai problemi del mondo. A questo punto, viene da chiedersi quali siano i punti di contatto più tangibili con la musica barocca europea. Innanzitutto, è bene specificare che al pari di quella di Ennio Morricone la produzione di un grande compositore come Hisaishi va distinta in due branche: da un lato, la composizione applicata al cinema, dall’altro la composizione da concerto.

In Giappone è invalsa appunto la definizione Hisaishi melody per indicare la musica di Hisaishi di scrittura orchestrale, dove il termine melody indica una dimensione temporale apparentemente in contraddizione con quanto dichiarato dal maestro che si professa esponente del minimalismo, corrente della musica contemporanea che tende a ridurre gli elementi compositivi: egli annovera tra i suoi contemporanei di riferimento Arvo Pärt, John Adams, Bryce David Dessner, ma la critica ha spesso messo in luce come egli non ignori affatto la melodia, costruita attraverso «la ripetizione quasi ipnotica di brevi frammenti musicali». Fu proprio nel Barocco che si iniziò a ragionare con più attenzione sull’utilizzo iterativo di temi e motivi: nella produzione di Hisaishi la vicinanza al repertorio barocco a volte è sotterranea e si esplica nel suo modo di giocare col flusso musicale, mentre altre è esplicita e consiste in citazioni dirette di maestri come Bach, Händel e Corelli.

Se pensiamo a Nausicaä, troviamo gli esempi di Sento, che ricorda la Sinfonia No.III di Johannes Brahms, e Requiem, molto vicina alla Sarabanda HWV 437 del già citato Händel; ancora, Il Signor Pasta e la Principessa Uovo (2010) –cortometraggio visibile in esclusiva nel museo dello studio a Tokyo– riprende La Follia di Corelli per il tema principale. La conclusione che se ne trae è che Hisaishi combina istanze del minimalismo e del barocco attraverso la ripresa di temi noti che vengono riproposti in una chiave completamente nuova: a riprova della “simbiosi” tra Miyazaki e Hisaishi questo gusto per la trasformazione dei temi ricorre nei film incentrati sulla metamorfosi, come Porco Rosso (1992) e Principessa Mononoke (1997), fino a giungere a Il castello errante di Howl (2004) in cui Hisaishi utilizza un solo tema –quello del valzer– variandolo infinite volte e discendendo per quarte come nel capolavoro barocco di Johan Pachelbel Canone e Giga in Re Maggiore.

Fotogramma da "Il castello errante di Howl" (2004)
Fotogramma da “Il castello errante di Howl” (2004)

Per chiudere Igor Imhoff, docente di Animazione presso la Scuola Comics di Padova e di Grafica 3D presso l’Istituto Europeo di Design di Venezia, ha raccontato la sua esperienza nell’animazione digitale spiegandone le basi. L’animazione 3D nasce negli anni Sessanta e si basa su un sistema di vettori in uno spazio tridimensionale: la difficoltà sta nell’imparare a utilizzare i software e nel capire quale tra i tanti si adatta meglio all’animazione che si ha in mente. Per prima cosa si realizza il rig, lo scheletro digitale del personaggio: esattamente come in un vero scheletro esistono delle ossa, dei punti di snodo che ne determinano l’ampiezza dei movimenti, per i quali ci si può affidare al motion capture o alla cinematica inversa.

Con il 3D bisogna però tenere conto anche della capacità di rendering dei software, vale a dire la resa finale delle immagini che il programma è in grado di offrire, e della lavorabilità e pesantezza dei file. Prima di passare alle dimostrazioni pratiche, Imhoff ha fatto giustamente notare che in questo campo lo sforzo più grande non sta nell’imparare a usare un computer ma nello «spostare l’asse dal saper fare al saper vedere», poiché gli strumenti «permettono soltanto di assecondare un’idea, non di concretizzarla».