Più che un film da proiettare in sala alla Mostra del Cinema di Venezia, sembra un’installazione da allestire in un formato immersivo e/o interattivo alla Biennale d’Arte questa serie di inquadrature quasi sempre fisse, lungamente e insistentemente rivolte verso i gangli tanto centrali quanto periferici, tanto esterni quanto interni della capitale russa Mosca. A riprenderli, dietro la macchina da presa, ma anche cliccando sulle frecce di Street View, è non a caso una giovane regista russa attiva anche come artista e curatrice di mostre, la trentenne Ekaterina Selenkina che con questi suoi spiazzanti 73 minuti di lungometraggio si è aggiudicata a Venezia 2021 il premio come migliore autrice under 40 (dedicato alla memoria di Valentina Pedicini) nell’ambito della 36. edizione della Settimana Internazionale della Critica.

L’idea alla base dei “percorsi alternativi” del titolo, che bypassano gli itinerari più rapidi (normalmente suggeriti dai calcoli e ricalcoli dell’ineffabile Google maps, sorta di invisibile deus ex machina di Detours), è indubbiamente interessante e si impernia su almeno tre nodi cruciali:

1) Gli spazi della megalopoli russa per eccellenza, che teoricamente potrebbe essere una qualsiasi grande città russa per la specificità di certi suoi elementi architettonici e infrastrutturali; chi scrive ha però vissuto per anni a Mosca ed ha dunque immediatamente riconosciuto, in alcune delle vedute proposte, una delle arterie principali della città in una giornata particolarmente trafficata, oltre all’atrio di una nota stazione ferroviaria. La mdp, in campi lunghi e medi, si poggia lungamente su vialetti, vicoli ciechi, mercati coperti, cortili, garage, passaggi sopraelevati, binari abbandonati e molti altri dettagli apparentemente insignificanti di un groviglio di strade e case entro cui ci si può ancora perdere, ma dove al giorno d’oggi è evidentemente impossibile nascondersi (cfr. punto 2). Non a caso, tra queste spontanee scenografie baluginano spesso e volentieri figure umane e animali, passanti casuali quanto quelli catturati – e immortalati, seppur protetti dall’anonimato delle loro facce pixelate – nei fermi immagine di Street View (anche qui cfr. punto 2).

2) La moltitudine delle telecamere di cui è costellato qualsivoglia paesaggio urbano ed extra-urbano, costantemente e inevitabilmente “spiato”, non solo per motivi di sorveglianza, ma anche per fornire servizi oggi imprescindibili come Google maps e soprattutto il Google Street View di cui sopra.

3) Ultimo ma non ultimo, il frammentario soggetto – la “trama del film”, se di trama di può parlare -, peraltro destinato a rimanere sostanzialmente inconcluso, che vede al centro un ragazzo di origine centrasiatica coinvolto nello spaccio di droga e impegnato, tramite il Darknet, a nascondere pacchetti di sostanze stupefacenti in diversi e insospettabili angoli della città.

Proprio quest’unico personaggio di cui seguiamo alcune vicissitudini è il trait d’union tra i due punti precedenti: se da un lato si ritrova ad esplorare i meandri piu’ remoti e allo stesso tempo piu’ caratteristici di Mosca per trovare i luoghi adatti ai suoi scopi, anche ricorrendo alle app come Street View per le necessarie ricognizioni, dall’altro, osservatore e osservato allo stesso tempo, viene costantemente colto in flagrante dall’onnipresente e onnipotente occhio della telecamera, di sorveglianza o della regista, fin dentro al commissariato di polizia dove verrà a un certo punto trattenuto.

Zone di luce e d’ombra dell’odierno spazio urbano in una nuova e a tratti inquietante flânerie filtrata dagli audiovisivi e dalle app digitali; straniamento dell’abitante della metropoli portato a intercettare quotidianamente un’enorme quantità di persone che però rimangono perlopiu’ anonimi passanti incrociati per caso, di cui non si conosce il “prima” e il “dopo”; riflessione sullo sguardo ormai sempre vigile e attento dei mezzi tecnici e della Rete (a cui a malapena può sfuggire il Darknet) e sulla corrispondenza o discrepanza tra lo spazio fisico e quello virtuale; presa d’atto del mutamento irreversibile del senso dello spazio e delle distanze provocato dall’uso quotidiano di devices e app… Si tratta, in conclusione, di un’opera d’autore ricchissima di spunti ed estremamente pregnante a livello concettuale, ma proprio per questo – perlomeno nella percezione di chi scrive, ma forse anche dei numerosi spettatori che hanno abbandonato perplessi la platea ben prima che finisse la proiezione di Detours – forse avrebbe dovuto essere destinata a uno spazio diverso e a un pubblico diverso. Come si diceva in apertura, si sarebbe potuta allestire la grande sala di un centro di arte contemporanea con diversi schermi disposti ad hoc in modo da seguire in presa diretta (in ordine prestabilito o sparso) i movimenti del “tesoriere” della droga protagonista, passando dal ruolo di osservatori a quello di osservati, magari anche interagendo con touchpad interattivi sintonizzati sullo Street View di Mosca per scegliere itinerari alternativi in parallelo a quelli battuti dalla regista. Forse una simile scelta avrebbe reso la fruizione di questo radicale esperimento creativo più coinvolgente e avrebbe fatto arrivare con maggiore forza ed efficacia la moltitudine di messaggi in esso racchiusa.