Petrunya è una ragazza macedone non tanto giovane, non tanto occupata, non tanto amata, non tanto concentrata sul suo futuro, ma abbastanza sfortunata da ritrovarsi al posto sbagliato nel fatidico momento meno adatto: la maschilista e iper-tradizionale sua comunità organizza un “rito battesimale a premi”, in cui per sua sfortuna la ragazza vince, raccogliendo dai flutti di un fiume una piccola croce. Per la prima volta a vincere è una donna, e ciò non viene recepito con troppo entusiasmo dai suoi concittadini.
È di poco tempo fa la notizia che la annosa questione sul nome ufficiale da utilizzare per il paese balcanico con capitale Skopije ha forse trovato finalmente una risoluzione, con l’accettazione da parte dei greci del nome di “Macedonia del Nord”. Comunque si voglia chiamare il paese, almeno dal punto di vista cinematografico Teona Mitevska mette una bella bandiera e ci costringe a non dimenticare l’esistenza di talenti grotteschi e provocatori a quelle latitudini dell’Europa meridionale. Già autrice di una manciata di lungometraggi (è quasi un habitué qui alla Berlinale…), autrice impegnata in quello che lei definisce “femmartivismo”, la Mitevska mette a segno con questo suo Dio esiste…una satira impietosa sui rapporti fra sessi e poteri nella provincia macedone.
La protagonista è una giovane fuori tempo massimo, più pigra e sfortunata che colpevole della propria situazione: disoccupata, disamorata, ma non del tutto disadattata. Ché sembra anzi avere una cocciutaggine e un menefreghismo utilissimi ad affrontare la stagnazione culturale e sociale della sua cittadina. In questo spazio-tempo bloccato e arretrato quello che sembra essere un tentativo di suicidio si trasforma inaspettatamente in una mini-resurrezione, per lo meno emotiva e morale, per Petrunya.
Il film ha un prologo spassoso che serve ad inquadrare il personaggio: la 31enne si dirige senza troppa convinzione verso un colloquio di lavoro, fino a venire quasi sedotta dall’intervistatore, che le fa balenare davanti la possibilità di risolvere a un tempo entrambi i suoi problemi esistenziali, la mancanza di lavoro e d’amore. Ma è proprio questa ulteriore, quasi definitiva delusione (o sconfitta?) a portarla “fuori binario”, al di fuori degli schemi annoiati della sua vita che si trascina uguale giorno dopo giorno; sulle rive di un fiumiciattolo il pope ortodosso del paese sta per dare il via al tradizionale gioco dell’Epifania: una piccola croce di legno verrà gettata nel fiume, e l’ardito nuotatore che la recupererà/salverà sarà eletto vincitore del giorno oltre che simbolico protettore della fede e destinatario di sicura fortuna. Per puro caso è invece Petrunya a recuperare l’oggetto sacro, scatenando ancestrali odi maschili nei confronti di quella che nella giovane ragazzotta sovrappeso si trasformerà in una ribellione di “gender”, ma anche in una ostinata e un po’ incosciente autoaffermazione di sé.
La Mitevska si prende beffa di tutti gli organismi depositari del potere costituito: una polizia mediamente aggressiva e confusionaria, un potere religioso non troppo vicino al popolo, una fascia giovanile di cittadini/hooligans che sbraita contro la ragazza in quanto questa ha osato superare i limiti centenari di generi e ritualità: Petrunya infatti ha infranto le regole del gioco, partecipando a una (piuttosto becera) competizione ludica, più pagana e propiziatoria che realmente legata alla fede, e vincendola “senza averne diritto”. Su questo superamento di confini (il potere ancestralmente limitato al sesso maschile), regolamenti (la ragazza si prende una piccola rivincita, conquistando un trofeo cui non potrebbe nemmeno ambire), comportamenti (Petrunya per la prima volta si ribella, alza la voce, fa “opposizione” esistenziale) si basa questo ritratto grottesco della periferia balcanica, dove finché ci saranno piccole nuotatrici controcorrente come l’eroina pigra di questo film, avremo per chi tifare in simili competizioni.