La mano invisibile è l’opera prima del giovane regista andaluso Davìd Macian, che straordinariamente riesce a raggiungere, seppure per poco, le sale nostrane pur non potendo far vanto né di partecipazioni a festival importanti né di garanzie in ambito commerciale. Al contrario, il sistema economico corrente – anche al di là dell’ambito cinematografico – è l’oggetto del film, che si propone l’obiettivo critico di restituire un’immagine quanto più autentica del precariato moderno.
Precariato rappresentato da 11 persone che si ritrovano su un palco a recitare se stessi in qualità di lavoratori, non facendo altro che svolgere ripetutamente le loro mansioni abituali. Sono lavoratori umili, vediamo un muratore che costruisce e abbatte ciclicamente un muro, una sarta che fa e disfa un vestito, un cameriere che procede avanti e indietro con dei piatti in mano, tutti situati in questa distesa nera che dovrebbe essere un teatro, ciascuno isolato da una luce verticale. Innanzi a loro è presente un pubblico che udiamo soltanto che commenta, incita, fischia, come fosse la concentrazione in un unico luogo fisico di quella fascia di spettatori ipnotizzata dai reality show.
Questa mise-en-scène perversa, sia essa teatro sperimentale, oppure un esperimento sociale – non conosciamo l’esatta natura dell’espediente interno alla narrazione – è orchestrata sempre da quella stessa mano invisibile eponima che ovviamente, almeno in prima battuta, fa riferimento alla teoria smithiana dell’autoregolazione del mercato. La seconda mano però è per Macian di natura completamente differente: sarà invisibile, ma di sicuro non è un sistema meccanicistico. L’esordiente spagnolo segue questa linea proponendo come struttura fondante quello dell’identificazione, facendo sì coincidere lo spettatore del suo film con quello del teatro ma proponendo similitudini anche con gli attori, i doppiamente attori. Macian accosta tutte le dimensioni che crea, andando a raffigurare una situazione economica che si schiaccia sulla società dello spettacolo, in un mondo dove forma e sostanza sono ormai indistinguibili. Ogni personaggio – perché a questo punto anche il pubblico diegetico e quello extra-diegetico fanno parte di quel XI che vediamo sul palco – è un precario, perché non sa nemmeno quando cesserà di essere tale nella finzione. Il precariato è elevato a condizione di indeterminatezza tale da potesi sposare con la dialettica filmica tra fattuale e falsificato, in un contesto privo di diritti poiché la condizione lavorativa riposa su una tale inconsistenza da apparire come un ruolo da impersonare, in grado dunque di riempire una persona vuota e svuotata, che non trova identità in quanto sradicata forzosamente dalla propria realtà. Come nel cinema si sospende l’incredulità, questo nuovo homo precarius è sospeso rispetto al piano delle determinazioni, dove il lavoro non è più un diritto ma una concessione: precario deriva da preghiera, e la preghiera è propria del servo.
Il precariato di Macian non è una situazione meramente economica, ma, come nel saggio di Isaac Rosa da cui prende le mosse (introducendo poi una forte base narrativa), sconfina con uno status esistenziale: essere precario non significa rientrare in quella particolare condizione di lavoro dipendente a termine, ma anche non poter programmare il futuro, non essere in grado di disporre confronti qualitativi, essere costretti a relazionarsi in modo esclusivo con la dimensione dell’eterno presente, non poter costruire culturalmente un’identità consapevole. Questa è la seconda mano invisibile di Macian, quella che afferra la coscienza di classe e la fa venire meno. La metafora del teatro sfuma durante i minuti per lasciar dire alla calibrata regia del nostro che questo spirito di classe non si dà più in maniera unitaria, scisso in un modo di pensare necessariamente libero a oltranza e atomizzato rispetto ai rapporti interpersonali: da una parte c’è un io e dall’altra la gente, organismo (?) non meglio identificato che legittima ogni forma di predisposizione conflittuale verso tutto e tutti.
Conflittualismo che per Macian si maschera dietro la denominazione di “competitività”, dove un diritto acquisito è visto alla stregua di una zavorra nella gara di velocità che è il lavoro post-globalizzato, e dunque può essere subordinato alla libera alienazione – ovviamente culturalmente cooptata, libera solo de iure. Il nostro intende mettere in luce quell’intricato sistema di automatismi che fa credere a una classe di essere separata (volendo stigmatizzare la questione in modo semplicistico) in pubblico e marionette, in attori di palcoscenico e attori sociali. Quelli che sono sul palco invece approdano a una mercificazione di un livello superiore: non solo la produzione è di fatto infruttuosa e slegata dal valore d’uso, ma manca assolutamente di fini ultimi, cioè funziona solo in quanto residuale dello spettacolo che separa le fazioni: gli uni inscenano, gli altri guardano, e poi ci siamo noi che siamo sfidati a comprendere da un punto di vista privilegiato come il film in questo senso sia una sorta di ricostruzione del percorso del sasso di Giasone.
Questa complessità viene portata in scena da Macian con grande grazia e ordine. A dire il vero riverbera in parte gli stessi limiti di A ghost story, cioè non può vantare una chiave estetica propria, ma a questo punto in un’impostazione simile questo fattore pesa certamente di meno. Evidente è l’influenza di Dogville di von Trier, compiacendo certo quanti sostengono una chiave interpretativa sociologica più che umana del genio danese, ma non bisogna sottovalutare l’importanza della lezione di Non si uccidono così anche i cavalli?, film dimenticato di Pollack che però illustrava la crisi americana degli anni ’30 con lo stesso approccio parossistico. In generale la regia dell’andaluso è sottile, estremamente mediata, priva di scelte forti ma in virtù di questo anche molto diretta. Lo stesso Macian ammette candidamente di aver ereditato questa impostazione di camera fissa e montaggio invisibile dall’asettico descrittivismo saggio di cui sopra, calcando sull’ambientazione minimalista per dare rilievo più che altro alla condizione di solitudine dei personaggi, solitudine lavorativa che si fa totalizzante. L’ampio uso della camera fissa restituisce in modo quasi ovvio l’esperienza alienante – doppiamente alienante perché su tavolo di lavoro e su schermo – grazie alla staticità nervosa con cui sottolinea la ripetizione dei gesti, in un quadro dove l’immagine si perde dietro alla prevedibilità visiva per essere turbata soltanto da qualche testa che ogni tanto si gira cercando silenziosamente un appiglio; e comunque mai direttamente in macchina, per ricordare sempre che noi siamo loro.
Vale la pena concludere con una breve chiosa estemporanea. Nel 2010 Mediaset aveva avviato la produzione di un reality show intitolato Non è mai troppo tardi il cui svolgimento avrebbe previsto l’assunzione di una serie di professori precari o disoccupati per insegnare l’italiano ai personaggi rivelatisi particolarmente ignoranti nelle altre produzioni analoghe dello stesso canale, il tutto mentre il proprietario di quella rete grazie a suo potere politico varava una serie di tagli sistematici nell’ambito dell’istruzione pubblica o dei fondi per cultura: l’umiliazione come unica strada, a ogni fascia sociale, la cultura come merce, ridotta alla stregua di espediente comico, la massa precarizzata dileggiata da se stessa, in un conflitto orizzontale tale che avere la possibilità di vederlo dall’alto aiuta non poco, come poi La mano invisibile di Davìd Macian permette per un momento di fare. Imperdibile.