Si era già detto parlando di On the beach at night alone quanto il 2017 per Hong Sang-soo fosse stato un anno particolare, molto fruttuoso, ma non eravamo ancora arrivati a parlare di Geuhu, il film del trittico d’annata selezionato per la postazione con maggiore visibilità, quello del concorso ufficiale della 70esima edizione del Festival di Cannes.

Particolare è anche per chi scrive parlare di due film del regista in questione con un intervallo temporale così breve, dato che è molto facile incappare nel vizio di ripetersi sterilmente nell’analizzare quest’autore. Non serve soffermarsi su come Hong faccia tesoro della sua ripetitività, declinando ogni film come una variazione a sé stante di un grande sistema. Nemmeno in questo caso non c’è troppa distanza dall’usuale intreccio sentimentale che dà forma a un’elegante ispezione delle dinamiche umane, spesso in chiave psicologica – ma mai psicologistica. Kwon Hae-hyo, presenza cui chi conosce il cinema coreano e quello di Hong nello specifico avrà oramai fatto l’abitudine, è Bong-wan, piccolo editore che sopporta la grigia quotidianità grazie all’amante Chang-sook. Quest’ultima, originariamente solo la sua segretaria, rassegna le dimissioni e rompe la relazione, stufa dell’eterna indecisione di Bong-wan, che intanto però è stato scoperto dalla moglie, la quale, non paga della confessione dell’adultero, si precipita sul luogo di lavoro per risolvere la questione con “colei che l’ha privata di suo marito” a suon di schiaffi, finendo però solo per malmenare la povera Areum (Kim Min-hee, musa del regista), la neo-assunta chiamata a sostituire Chang-sook, che intanto ritorna però sulla scena per riprendere il suo vecchio ruolo.

Al di là dell’apparente complessità, quasi da soap opera con il suo corredo di strilla, triangoli e gelosie, quello che fa Hong è lavorare per sottrazione, avvalendosi di schemi dialogici elementari e rapportando le figure in gioco attraverso geometria, tecnica e narrativa. A partire dal b/n che non si vedeva da The day he arrives, il regista coreano leva i colori, semplifica l’ambiente dal punto di vista visivo, privandolo di tutti gli appigli utili a personaggi e spettatori. La funzione è duplice: primo, e banale, far parlare l’immagine per raffigurare il grigiore della vita post-borghese, secondo, intrappolare i soggetti, abusando della zoomata ottica quasi volesse restituire una sensazione di claustrofobia. Ma sappiamo il lavoro di Hang tende sempre all’opposto. Lui i personaggi li annoia, li getta in prigioni vastissime che soltanto dopo diventano anguste nel loro infinito spazio, quando ogni stimolo diventa uguale al precedente, schiacciandosi fino perdere ogni caratteristica. Questa variazione in ambito estetico gli serve piuttosto per svoltare verso una trattazione più sociologica (volendola catalogare) calcando la tecnica formale per palesare la monotonia e ciò che essa vela.

Bong-wan si presenta infatti come una figura diegetica solo a metà, impregnata di caratteri autobiografici dello stesso Hong ed estraneo, nonostante la sua posizione pivotale, al trittico femminile. La sua costruzione, il suo essere castigato, contestualizzato in modo così rigido fa da contrasto con il moto creativo del nostro: invero molto spesso Hong fa uso dell’espediente delle sliding doors, ed ebbene, è proprio questo che il protagonista maschile cerca, trovandosi invece vincolato in questo senso. Bong-wan vive infatti la sua vita come fosse un percorso costituito unicamente da porte girevoli: sostituisce un’amante con un’altra, non fa distinzioni tra le sue comprimarie, ammette i tradimenti alla moglie perché non sa discernere tra i detti e non-detti di lei; per l’appunto, vede tutto in bianco e nero e sogna i colori, finendo solo per approcciarsi a livello meramente quantitativo ai rapporti umani. La variabile impazzita, come nelle ultime opere del coreano, resta Kim Min-hee con il nome di Areum, compagna di vita oltre che musa, che ha un nome dissonante in quanto differente, miraggio che crea la ragione fondante per il film, ispirando nell’accezione più letterale possibile. Compare sempre contrapposta agli altri personaggi, più scura o candida a seconda della fotografia della scena, rigorosamente improvvisata come da firma di Hong.

La regia di Hong è sempre identica a se stessa, mai disomogenea, e mette in luce con freddezza le tavolate trai protagonisti del quartetto. Il cibo dissacra ogni cosa, fin dalle primissime produzioni del regista, donando quel tocco grottesco che ci riporta su piano di realtà del film, offrendo allo sguardo per prima cosa l’inconsistenza, la mancanza di coerenza interna di quanto viene messo in scena. Areum svela le contraddizioni di Bong-wan, che vive più che bene nella sua argentea prigione, in primo luogo proprio poiché è lui il primo a volersi creare uno spazio rassicurante, così come scardina l’ipocrisia della di lui moglie, che si scaglia erroneamente contro di lei sentendosi disarcionata, cioè privata dei suoi diritti acquisiti, esibendo un approccio normativo nell’affrontare la relazione in disfacimento. Tutti i personaggi parlano con gli altri, a due a due, in qualche occasione in tre, e a partire da questi dialoghi molto esplicativi Hong lavora per creare uno spazio bianco, che spesso viene delimitato dalle parole di Areum, ovviamente, ma descritto, riempito dalle parole degli altre tre. Hong lavora sempre per sottrazione, non mettendo a nudo quanto vuole sottolineare, anzi: vela e fa passare tra le maglie del suo cinema la pochezza, il dramma linearmente assurdo dei suoi esseri umani, manifestandolo via negationis. Sottile e delicato nella sua mostruosa semplicità, A day after, forse non adatto al concorso ufficiale nonostante l’indubbia qualità (vero Frémaux?) rimane l’ennesimo gioiellino del regista coreano, che con questa declinazione in uno spazio filmico più consapevole di se stesso a cavallo tra Allen e Rohmer ricorda ai propri estimatori che non c’è ripetizione che tenga: l’impianto sarà sempre lo stesso, il film cangia, ondivago, ma almeno una visione rimane d’obbligo.