Un avvocato ingiustamente accusato di omicidio e uno sbirro deciso a fare di tutto per catturarlo. Nel mezzo, tra assassine professioniste e killer corrotti, una losca casa farmaceutica e un nuovo, futuristico elisir per superuomini.

Il regista già Leone d’Oro alla Carriera nel 2010, sbarca a Venezia per presentare in anteprima mondiale il suo nuovo, adrenalinico film. Fracassone, manierista e ipertrofico, John Woo torna al cinema esagerato e fuori misura forse a lui più congeniale. E tutto si può dire della caccia all’uomo di Manhunt tranne che lesini sullo spingere a tavoletta, dall’inizio alla fine.Woo gioca con la trama poliziesca – pretestuosa e, in fondo, banalissima – e confeziona un film roboante e visivamente complesso, scegliendo la via dell’accumulo sensoriale piuttosto che l’accuratezza narrativa. Il lungo e frenetico inseguimento che caratterizza tutta la durata del film, per il regista cinese emigrato a Hong Kong è solo il pretesto per mettere in scena un’accattivante e ricercata coreografia stilistica che rischia però di lasciare – sotto la grande sapienza tecnica – un oscuro vuoto emotivo.

Per arricchire ulteriormente Manhunt, John Woo sceglie anche di avvalersi di un improbabile crossover linguistico – espediente narrativo del quale gli attori sembrano essere le prime vittime – tra giapponese, cinese e inglese. D’altra parte, anche i protagonisti sono semplici marionette utilizzate dal regista di Paycheck per mettere in scena il suo elaborato e ambizioso racconto visuale.

Se l’esperienza di Manhunt può rivelarsi superficialmente curiosa, tra infinite dissolvenze e sapiente montaggio, con lo scorrere dei minuti ci si accorge che il fumo – per quanto odori di sapienza cinematografica – non nasconde alcun appettibile arrosto filmico.