Vincitore dell’Orso di Cristallo nella sezione Kplus alla 65esima Berlinale, Min lilla syster (2015) – questo il titolo originale – segna il debutto alla regia di un lungometraggio per la svedese Sanna Lenken, che con questo dramma familiare attraverso gli occhi dei giovanissimi si confronta con la sua personale esperienza di anoressia.
La diciassettenne Katja – Amy Diamond – è una promessa del pattinaggio artistico: tutti la ammirano, la sua sorellina Stella – interpretata dalla sorprendente esordiente Rebecka Josephson – in primis, ma dietro le apparenze cela una profonda insoddisfazione. La serenità del nucleo familiare inizia a incrinarsi a causa della crescente isteria della maggiore, che Stella scopre essere legata al rifiuto del cibo: vorrebbe avvertire da subito i genitori, ma per non compromettere il suo segreto più grande – l’infatuazione per l’istruttore di pattinaggio Jacob – cede alle pressioni di Katja e resta in silenzio. Il problema sfuggirà presto di mano, costringendo la famiglia a far fronte comune per salvare la ragazza da se stessa.
Non è la prima volta che la regista affronta questo tema, ma se il corto Eating lunch (2013) – anch’esso presentato a Berlino – si focalizzava sulla degenza e la malattia vera e propria, My skinny sister fa un passo indietro analizzando la fase in cui il disturbo ha appena iniziato a manifestarsi. Lenken assume quindi il punto di vista di Stella piuttosto che della diretta interessata, con uno sguardo privilegiato sul suo microcosmo in transizione verso l’adolescenza: così il fruitore, esattamente come la protagonista – che, è il caso di metterlo in chiaro, è Stella –, finisce per dimenticarsi di Katja e la sua salute finisce sullo sfondo, almeno fino a quando quest’ultima non farà prepotentemente irruzione verso il finale. Questa identità epistemologica di spettatore e personaggio permette di comprendere come mai nella realtà sia difficile rilevare simili comportamenti: l’anoressia di Katja percorre sotterraneamente tutta la pellicola ed emerge soltanto episodicamente, lasciando come traccia una tensione difficile da interpretare per chi le sta intorno.
Il pregio di quest’opera prima risiede appunto nell’aver affrontato una questione che ultimamente è sulla bocca di tutti senza farne il proprio pilastro portante, rifuggendo il tono pedagogico in favore di un’introspezione psicologica e caratterizzazione verisimili, ovviamente di Stella, con le prime pulsioni sessuali e i tentativi di costruirsi un’identità di genere, ma anche dei comprimari, che nonostante lo screen time irrisorio vengono tratteggiati attraverso dialoghi semplici ma eloquenti.
D’altro canto, al di là di queste buone intuizioni My skinny sister è abbastanza convenzionale e poco incisivo, soprattutto per essere un esordio. Come si è cercato di mettere in evidenza, non si tratta di un film sull’anoressia ma di un racconto di formazione a doppio binario – rispettivamente l’evoluzione di Stella e l’involuzione di Katja – che ripropone senza grandi variazioni i classici riti di passaggio e scontri che portano al raggiungimento di un precario equilibrio, il cui fattore destabilizzante è l’anoressia. A rendere l’opera difficile da collocare è proprio l’attrito – insanabile – tra la componente autobiografica, più patetica e intimista, e la componente di fiction, che presenta invece un tono distaccato. Inoltre, benché soddisfacente per quanto concerne la scrittura, la regia si scopre davvero molto scolastica e tradisce una predilezione per il dettaglio non sempre giustificata.
Una considerazione che si potrebbe fare a questo punto è che la regista avrebbe forse conseguito un risultato tecnicamente migliore e avrebbe fatto passare con più efficacia il suo messaggio se avesse cercato una soluzione genuinamente narrativa avulsa dal proprio vissuto. Chissà che ora, liberatasi da questo fardello di gioventù, Lenken non riesca a proiettarsi verso altri orizzonti espressivi maturando anche sul piano tecnico: le potenzialità di fatto ci sono.