Durante uno dei conflitti che hanno sconvolto l’ex-Jugoslavia, Kosta, mentalmente sconvolto dagli orrori della guerra, presta servizio nelle retrovie trasportando quotidianamente sul fronte a dorso d’asino il latte per i suoi ex-commilitoni. Un giorno l’arrivo di una bellezza italiana gli sconvolgerà ancora maggiormente la vita.

Quando vieni a sapere che Emir Kusturica ha girato un film con Monica Bellucci e lo ha interpretato in prima persona, ti fai due calcoli un po’ velenosi e prevenuti (lo confesso) e ti aspetti un’operazione di restyling glamour e di autocelebrazione della stella appannata di un regista che fu, e inizi con il chiederti se la scelta di assumersi il peso del ruolo principale sia da interpretare come una prova di immedesimazione biografica con la vicenda, un’assenza di altri attori pronti a scommetterci la faccia, o semplicemente come mera sopravvalutazione delle proprie doti attoriali. Quando poi quel film lo vedi e ti accorgi che l’amore di un tempo che fu non riesce ad andare oltre una stanca riproposizione dei propri cliché visivi e di gag rubacchiate qua e là ai suoi primi grandi film, propendi nettamente per la peggiore delle ipotesi summenzionate.

In soldoni, la pericolosa compartecipazione al progetto di due entità interpretative così piatte e monocordi come quelle della Monicona nazionale e di un regista serbo cui gli amici intimi dovrebbero sconsigliare vivamente di spingersi da ora in poi oltre i fugaci camei ne svelano il sostanziale ed imbarazzante fallimento, sia sul piano estetico che su quello più commercialmente mediatico-celebrativo. Se l’autore di scoppiettanti mosaici balcanici come Gatto nero, gatto bianco e Il tempo dei gitani, ma anche di capolavori storico-immaginifici come Underground e di intimistiche e dolci-amare commedie come Ti ricordi di Dolly Bell? e Papà è in viaggio d’affari non riesce a far altro che saccheggiare se stesso e a propinarci il suo faccione inespressivo per 125 minuti stiracchiati come pochi, la conclusione è che l’unico, tristissimo, inevitabile aggettivo da associare all’un tempo grande autore sia purtroppo “bollito”. Difficilmente inoltre, mi sento di ipotizzare, il passaparola o il richiamo dell’attrice di fama potranno far decollare questo filmetto al botteghino.

È fin dalle sconclusionate prime scene in cui Emir affastella oche insanguinate, maiali recalcitranti, indecifrabili orologi austro-ungarici che non si sa perché (forse “simbolicamente”?) continuano a ferire tutti i personaggi del film con i propri antichi meccanismi storici che la sensazione di stanco e ripetitivo déjà vu si impossessa dello spettatore. Se la vis erotica di una scoppiettante Sloboda Micalovic (l’unica nota positiva di questo sconclusionato bric-a-brac) rianima a sprazzi un tableau da realismo magico d’accatto, ciò non basta a rimettere in piedi un’opera che traballa fin dall’inizio sulle gambe malferme dell’auto-citazionismo. È come se Kusturica fosse sceso, un po’ annoiato e claudicante, nello scantinato delle idee scartate dai suoi film precedenti, le avesse riportate su trascinandole a spalla come le pietre del finale e poi incollate alla bell’e meglio a forza di musiche balcaniche e danze sfrenate di bellezze mediterranee, non disponendo però più della formula magica necessaria a ridare un’anima ad oggetti morti e sepolti di un’era che fu.

Il soggetto di partenza avrebbe di per sé degli spunti non disprezzabili: il tentativo del personaggio principale di ricrearsi un mondo parallelo velato di artificiale innocenza dopo l’esperienza sconvolgente degli orrori bellici (gli hanno ucciso barbaramente il padre sotto gli occhi), il contrasto fra usi e costumi locali di un paesino dell’ex-Jugoslavia e la ventata di novità portata da un elemento allogeno e pericoloso (il personaggio della Bellucci, perseguitata non si capisce bene da chi e per quale motivo), infine l’afflato universale che potrebbe spirare da una storia di amor fou situata nel bel mezzo di una carneficina militare.

Ma il tutto viene realizzato nel peggiore dei modi: data per scontata l’inadeguatezza dei due protagonisti principali a reggere in maniera dignitosa tale carico di elementi strutturali, anche tutto il contorno (di nuovo: fatta salva la fisicità pura e conturbante della Micalovic, che andrà rigiudicata in film di altro spessore) si muove come l’ingranaggio impazzito dell’orologio di cui sopra, ferendo in questo caso a livello metaforico non i personaggi ma la reputazione dell’autore.

Festini oversize prolungati oltre il tempo sopportabile (bruttissima copia di quelli di Underground), fellinismi al di là di ogni possibile decenza (è ancora possibile nel 2016 riproporre voli mentali e colloqui con i morti senza cadere nel ridicolo?), infine una rappresentazione sempliciotta e troppo caricata del rapporto “naturale” con la purezza istintiva degli animali. Il tutto (affossato anche da effetti speciali non proprio ineccepibili) ci restituisce uno scenario in cui ti auguri solo che l’autodistruzione cui si sottopone il povero Emir finisca il prima possibile, per il suo stesso bene.

Forse, un regista irrecuperabile.